Quando la giustizia tributaria è un accidente geografico

A Sacrestano webStorie e vittime di un provincialismo auto-indotto che ostacola e crea danni

 

Ho apprezzato molto l’articolo di Massimo Adinolfi – pubblicato su Il Mattino lo scorso 23 gennaio – perchè tracciava uno spaccato cinico, ma reale, della nostra provincia.
C’è un passaggio in cui Adinolfi dice che Salerno «…vive a pochi chilometri da una capitale, Napoli, e da almeno un paio di decenni ha deciso di soffrirne».

Sembra la solita storia! Quella di un napolicentrismo mal digerito, ma contrastato spesso con mediocrità, sudditanza psicologica e raramente con segnali di eccellenza di rilievo nazionale che pure ci sono nella provincia.

Possibile che Salerno finisca sui giornali solo per le indagini su un appartenente al clero con una presunta predilezione per il lato epicureo e materiale della vita?

Possibile che di Salerno non si racconti una storia diversa, fatta di personaggi, di menti, di imprese e di iniziative che dimostrino fattivamente il superamento di un provincialismo intrinseco al nostro DNA?

La sensazione è che molto di quel provincialismo che ci viene recriminato sia auto-indotto, frutto di scelte deliberate assunte in piena coscienza dai soggetti che operano nei centri nevralgici della nostra terra e che finiscono per contribuire non poco a delineare un quadro di promessa di belle speranze, finite però poi male.

Per dimostrarlo, basta fare riferimento alla sede territoriale della giustizia tributaria.

A Salerno, è bene ricordarlo, opera tanto un collegio di primo grado  – la Commissione Tributaria Provinciale – quanto una sezione distaccata della Commissione Tributaria Regionale, cui sono destinati i giudizi di appello.
Le Commissioni Tributarie rappresentano l’estremo tentativo di difesa dei contribuenti che, raggiunti da atti contenenti pretese erariali o tributi locali, dopo aver cercato invano di dimostrarne la nullità o la parziale irregolarità all’ente emittente, chiedono al giudice tributario di fare da arbitro, in base alla legge, fra se stessi ed il Fisco.
La funzione del giudice tributario è pertanto di elevato spessore.

In un recente passaggio alla sede provinciale di Confindustria, il numero uno delle Entrate, Attilio Befera, ha dovuto ammettere che l’amministrazione finanziaria spesso rimane essa stessa vittima di un coacervo di norme fiscali scritte da un Legislatore disattento, quando non assolutamente incompetente; tuttavia, il Fisco è chiamato ad applicare quelle norme e, con sempre maggiore frequenza, a riempire spazi vuoti e ad interpretare zone grigie, lasciate colpevolmente incompiute dal Legislatore.
È qui allora che entra in gioco il giudice tributario.

Quando le norme lasciano spazi vuoti e zone grigie sono proprio i giudici tributari che “aiutano” il Fisco ad indirizzarsi verso interpretazioni e soluzioni coerenti con gli obiettivi che il Legislatore avrebbe voluto raggiungere e che, per un disegno del Destino, avverso ai contribuenti, non è stato in grado di esplicitare nella norma prodotta.

Peccato che questo ruolo fondamentale sia affidato non a giudici specializzati, ben retribuiti e indipendenti (come da anni grida il mio amico Maurizio Villani, trasfondendo la sua amarezza in un progetto di riforma della giustizia tributaria di alto profilo), ma ad una compagine di “volontari”, cui si chiede, di contro, competenza massima per decisioni che riguardano il destino (a volte non solo fiscale, ma di vita reale) dei contribuenti, ricevendo in cambio poche decine di euro a sentenza emessa (quasi fosse un lavoro a cottimo!).

Proprio in questo strano e grottesco quadro si inseriscono storie di giudici tributari che, con la loro caparbietà e attenzione, sono in grado di “orientare” l’amministrazione (che, per definizione, tende ad offrire una visione più “rigida” del dettato normativo), dando una mano al Legislatore.

Salerno, negli scorsi anni, si è spesso distinta per posizioni coraggiose e ben studiate.

Recentemente, però, mi è capitato di imbattermi in un curioso orientamento pro Fisco da parte delle Commissioni Tributarie locali, soprattutto di quella regionale, che sa molto di “provinciale”. Niente di male se questo atteggiamento fosse di supporto a ragioni di diritto sacrosante.
Non sempre, però, è stato ed è così.

Un esempio.

Capita, nel tran tran cui sono chiamati ad operare gli enti locali della nostra provincia, che alcuni uffici impieghino più tempo del normale per ottemperare ai propri compiti. È successo così che un Comune del Salernitano abbia impiegato quasi 4 anni (sic!) per completare il trasferimento di residenza da un altro Comune richiesto da un cittadino.

E dire che la polizia locale aveva compiuto subito le indagini di rito, trasmettendo celermente gli esiti positivi del riscontro all’Anagrafe, che, però, si è rifiutato di completare la pratica perché l’istanza era redatta su un modello “non conforme”. Come se non bastasse, poi, lo stesso Comune dimentica di comunicare il blocco della pratica al richiedente che, ignaro, dorme sonni tranquilli. Almeno fino a quando a risvegliarlo non è uno di quegli atti tributari che nessuno vorrebbe mai ricevere.

Il cittadino malcapitato, infatti, aveva richiesto la residenza nel nuovo Comune in quanto nello stesso aveva acquistato un immobile, e la legge fiscale impone – per godere di alcuni benefici in sede di acquisto – che il contribuente si attivi per ottenervi la residenza entro diciotto mesi dalla stipula notarile.

Subito il cittadino, pressato dal conto salato presentatogli dal Fisco, si reca a protestare presso lo zelante funzionario comunale il quale, tronfio del suo eccesso di burocrazia, dopo aver opportunamente redarguito il contribuente, prende un modulo prestampato, lo fa firmare e, prendendo per buona la verifica compiuta 4 anni prima dai vigili urbani, attribuisce seduta stante la residenza (verrebbe da dire: efficienza “provinciale”).
Nemmeno il tempo di gioire che il cittadino ripiomba nello sconforto.
A nulla gli serve esibire al Fisco la residenza ottenuta, evidenziando che la sua parte l’aveva fatta richiedendo il trasferimento proprio nei diciotto mesi richiesti dal Legislatore e che, di certo, non poteva farsi carico dell’inefficienza del Comune. Nulla! In uno Stato di vero diritto, il conto salato avrebbe dovuto pagarlo il burocrate ritardatario, ma nel nostro il cittadino incassa il niet dell’amministrazione finanziaria, secondo cui la legge non ammette deroghe, nemmeno per la lentezza dei Comuni e, quindi, decorsi i 18 mesi il beneficio fiscale non spetta. 

Morale: il cittadino si tiene la multa!
Come a dire, oltre il danno…la beffa.

Passa qualche giorno e il cittadino multato si imbatte in un foglio di giornale in cui legge che la Cassazione (il Giudice finale anche dei processi tributari), per casi come il suo, ha sostenuto che il rigido riferimento cronologico dei diciotto mesi non vale nei casi di forza maggiore, ossia laddove il contribuente dimostri di essersi attivato in tempo e di non aver ottenuto la residenza per colpa del Comune.

Ha ragione, è proprio così che la Cassazione dice. Non gli resta quindi che andare dai giudici tributari per far valere i propri diritti!

Qui, però, il cittadino prende un altro bagno freddo.

Sì, perché qualche parente lontano (solo per affinità intellettive) del tronfio burocrate comunale esamina la richiesta di cancellare la multa prodotta dal contribuente e, in ossequio ad un provincialismo preponderante, la boccia. Insomma, il giudice tributario di prima istanza non vede in quella richiesta la possibilità di sanare un’ingiustizia (del resto, il cittadino non era un evasore, e la sua parte, ripetiamolo, l’aveva fatta); no, in quella richiesta vede la possibilità di scrivere che <<l’orientamento della Cassazione non lo convince>> e di giocare a fare “competizione” con la Suprema Corte, a spese del contribuente.

Caparbio, il contribuente non ci sta; decide che le sue ragioni saranno ascoltate dal grado successivo della giustizia tributaria che, per “fortuna”, ha anch’essa sede nella nostra provincia.
É sicuro che ne uscirà vittorioso perché nel 2013 la Cassazione ha aggiunto un nuovo tassello alla storia dei diciotto mesi. I giudici togati, infatti, hanno evidenziato che il termine indicato dal Legislatore non è “perentorio” (ossia da rispettare a pena di perdere il beneficio fiscale) ma “ordinatorio” (ossia una sorta di stimolo al contribuente ad ottenere la residenza prima che scada il termine per il Fisco per fare gli accertamenti).

É proprio il suo caso!

Peccato che anche il secondo grado della giustizia tributaria sia affetto da un provincialismo insanabile. Infischiandosene di quanto la Cassazione va predicando, il giudice d’appello motiva il suo ennesimo rifiuto citando pronunce dello stesso Organo ma dell’ormai lontano 2010 (forse è a quella data che si ferma la sua banca dati, che si è dovuto comprare da sé, perché il Ministero non gliela passa).

A questo punto, viene da chiedersi se si è figli di un dio minore.

Come è possibile che la giustizia tributaria dica cose diverse a seconda del posto in cui viene interpellata?

Ma soprattutto con chi dovrà prendersela il contribuente? Con il burocrate comunale? Con il giudice “in competizione” del primo grado, o con quello con la banca dati scaduta del secondo? O, forse, con l’avverso destino che lo ha fatto nascere in questa provincia che grida in faccia a tutti le brutture e l’inefficienza “napoletana” e che, ipocondriaca per una superiorità (inesistente) mal digerita, gioca a fare competizione al ribasso?