Castaldo: «Il ricorso eccessivo alla custodia cautelare è una delle spie del malfunzionamento della macchina giudiziaria»

ANDREA CASTALDO WEB

Per il professore e avvocato penalista, Andrea Castaldo, il Decreto Svuotacarceri non risolve il problema del sovraffollamento perché agisce sugli effetti e non sulle cause dello stesso. Bisognerebbe, invece, mettere in campo una politica criminale attenta e fare funzionare meglio l’amministrazione della giustizia

 

Professore Castaldo, i numeri della detenzione nel nostro Paese sono allarmanti: secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia, al 30 novembre 2013 erano in più di 64.000 ad affollare le carceri italiane, a fronte di una capienza regolamentare di 47.649 posti. Un altro triste primato italiano vuole trattenute nel nostro Paese in custodia cautelare quasi 24.000 persone, il 38,1% della intera popolazione detenuta. La maglia nera a livello regionale spetta alla Campania dove la percentuale sale fino al 49,6%. Perché si ricorre con così tanta frequenza a questo strumento? È colpa anche di un retaggio culturale sbagliato?

Da un confronto internazionale comparato sulle strutture carcerarie, in base al quale al 2012 in Italia erano 108 i detenuti ogni 100mila abitanti, il nostro Paese apparentemente non sembra essere messo così male. Se guardiamo infatti oltre confine, registriamo come, per esempio, negli Stati Uniti siano addirittura 716 le persone recluse. Inoltre superano il dato italiano la Grecia (111), l’Inghilterra e la Spagna (149). Hanno un minor numero di detenuti ogni 100mila abitanti, invece, la Germania (80) e la Francia (101). Possiamo quindi dire che, in relazione al generale fenomeno della detenzione, l’Italia è nella media. Il dato anomalo invece è proprio il tasso di popolazione carceraria in rapporto alla custodia cautelare: la percentuale italiana – sempre al 2012 – è del 38,1%. Peggio di noi solo l’Olanda con il 40,9%, mentre gli Usa hanno un tasso quasi dimezzato pari al 21,5%, l’Inghilterra al 12,7%, la Spagna al 15%.

A tal proposito è quanto mai opportuno chiarire qual è l’iter attraverso il quale si applica la custodia cautelare in carcere nel nostro Paese. La carcerazione preventiva, in Italia, è proposta dal PM (Pubblico Ministero) e disposta dal Giudice che procede (solitamente il giudice per le indagini preliminari). La sua concessione è ovviamente subordinata alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, al fatto, e alle esigenze che giustificano il ricorso alle misure cautelari: inquinamento probatorio, pericolo di fuga e di recidiva. Inoltre la misura cautelare in carcere deve essere applicata quale extrema ratio, soltanto qualora le misure meno afflittive risultino inidonee a soddisfare le esigenze cautelari.

Effettivamente, stando ai dati del Ministero della Giustizia, esiste un problema di incontrollato ricorso a questa misura, la cui causa è sostanzialmente legata alla struttura complessa e al funzionamento non perfetto del nostro sistema giudiziario. Ritengo infatti che il problema da lei sollevato possa essere una spia della complessiva inefficienza dell’amministrazione giudiziaria che fa della custodia cautelare un uso disinvolto, nel dubbio che la pena detentiva finale non ci sia mai.

Tra l’altro, aggiungo che, concretamente il vero dominus del procedimento de libertate non è purtroppo il giudice, il cui controllo sulla sussistenza dei presupposti e delle esigenze cautelari troppo spesso difetta di rigorosità poiché si limita all’esclusiva conferma di quanto richiesto dal PM.
Né la Cassazione vieta – seppur entro certi limiti – tale distorsione applicativa della norma che continua a destare più di una perplessità tra gli addetti ai lavori.

Il carcere di Fuorni – Salerno – non fa di certo eccezione con circa la metà dei detenuti trattenuta in regime di custodia cautelare…

Sì, anche l’istituto di pena salernitano vive una situazione di emergenza carceraria.

Potrebbero essere diverse le soluzioni per uscire dal sovraffollamento: amnistia, indulto, depenalizzazioni, misure alternative solo per citarne alcune. Ci spiega le differenze tecniche tra queste (portata e risultato)?

L’amnistia costituisce una causa di estinzione del reato che viene così cancellato, mentre l’indulto estingue la sola pena, in tutto o in parte. Ambedue sono provvedimenti generali, a differenza della grazia che è invece misura ad personam; la depenalizzazione invece sottrae al perimetro applicativo del diritto penale un comportamento in precedenza considerato reato, in modo che diventi lecito o resti illecito ma in altri rami dell’ordinamento (per esempio illecito amministrativo); le misure alternative alla detenzione in carcere attengono alla fase dell’esecuzione di una pena già inflitta: in questi casi, non si ricorre alla detenzione per favorire il processo di reinserimento sociale del condannato imposto dalla Costituzione all’articolo 27, terzo comma.

Che ruolo spetta alle autonomie locali in merito a questo settore?

Agli enti locali è demandato un ruolo di primaria importanza: la prevenzione e la sensibilizzazione delle comunità al fine di contrastare qualsivoglia fenomeno di disadattamento, anche attraverso progetti di recupero sociale.

Il sovraffollamento delle carceri non è solo un problema di ordine sociale o morale, ma anche di natura economica: sempre secondo le stime del Ministero della Giustizia un singolo detenuto costa alle casse dello Stato 116.68 euro/giorno (spesa totale nel 2010: 2 miliardi e 862 milioni di euro)…

Vero, il sovraffollamento è anche un problema di costi. Nel nostro Paese c’è una monocorde e ossessiva attenzione verso il carcere, mentre ad esempio pene alternative come quella pecuniaria sono neglette. È altrettanto vero, però, che nei casi in cui vi sono condanne pecuniarie, l’80% di queste non vengono eseguite. Esiste quindi anche un problema di grave stato di ineffettività della pena pecuniaria. Eppure questo tipo di sanzione potrebbe essere un’importante risorsa per le casse del Ministero della Giustizia, se le numerose inefficienze della macchina amministrativa fossero sanate.

Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone – la stessa che ha proposto le cosiddette tre leggi (modifica delle Fini-Giovanardi e Bossi-Fini, introduzione del reato di tortura e lotta al sovraffollamento delle carceri) ha definito il «nostro diritto penale un diritto da stato etico». Concorda o dissente e perché?

L’affermazione di Gonnella non mi trova d’accordo. Il nostro è uno Stato laico, e tale è pure il diritto penale che nulla ha a che vedere con l’etica. Il reato infatti non è necessariamente un fatto moralmente illecito o eticamente riprovevole. Vi possono essere comportamenti illeciti che non sono però rilevanti penalisticamente. È pur vero però che negli ultimi anni ci sono state delle spinte all’eticizzazione del diritto penale, per esempio con la proposta di introdurre il reato di negazionismo o quello di omofobia. Si tratta però di isolati e specifici temi, scivolosi, che creano tensioni proprio perché confinano con l’etica, con i valori culturali soggettivi.

Per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri la Corte Europea dei Diritti Umani ci ha imposto di assumere un piano per le riforme in ambito penale e penitenziario nel nome della protezione della dignità umana. Il Governo italiano ha di rimando recentemente risposto al diktat europeo con il Decreto Legge (il cosiddetto “Svuotacarceri”) in materia di giustizia penale e carceri che, nei prossimi due mesi, il Parlamento dovrà convertire in legge. Cosa prevede questa misura? 

Il D.L. 23/12/2013 n. 146 “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, al di là dei proclami, si pone l’obiettivo di sfoltire le carceri alla luce tanto delle raccomandazioni europee, quanto dei ripetuti inviti da parte del Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Tra le principali novità, va sottolineata l’estensione del margine di operatività della liberazione anticipata (che passa da 45 giorni a 75 per semestre); aumentano, inoltre, le possibilità di accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, sia ordinario che terapeutico, per pene fino a 4 anni (prima 3). Ultima e, a mio avviso, più significativa innovazione riguarda la stabilizzazione dell’istituto della esecuzione presso il domicilio delle pene non superiori ai 18 mesi, già prevista dalla legge n. 199 del 2010.

Questo pacchetto di misure, a suo giudizio, sarà efficace sul necessario decongestionamento del sistema ormai al collasso?

Dato anche il carattere di urgenza della norma, ritengo che le misure adottate si riveleranno dei meri palliativi, dei provvedimenti tampone che tentano di risolvere un problema agendo sugli effetti e non sulle cause. Bisognerebbe, invece, mettere in campo una politica criminale attenta e fare funzionare meglio l’amministrazione della giustizia.