L’articolo 18 dopo la Riforma Fornero

GIORGIO FONTANANella materia dei licenziamenti disciplinari resterebbe intatta la fondamentale norma di cui all’articolo 2106 del codice civile: il Giudice non è tenuto solo ad accertare l’effettiva sussistenza del fatto contestato nella sua materialità, ma deve valutare – fra l’altro – oltre ai profili soggettivi di dolo e colpa, anche se esso risulti così grave da giustificare l’applicazione della sanzione del licenziamento disciplinare con la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro

Una delle questioni più rilevanti poste dalla riforma dell’art. 18 l. n. 300/1970, a seguito della “legge Fornero”, è quella relativa alle condizioni che consentono al Giudice di provvedere ai sensi del V comma della suddetta disposizione di legge, ossia di condannare il datore di lavoro, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, unicamente al pagamento in favore del lavoratore di un’indennità risarcitoria pari ad una somma ricompresa fra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità di retribuzione globale di fatto.

Difatti (al di là delle ipotesi contemplate dal I° comma dell’art. 18, che obbligano sempre il Giudice a disporre la reintegrazione del lavoratore, con tutela reale del posto di lavoro) occorre tener presente che il comma IV dell’art. 18 prevede ora l’obbligo di reintegra quando il Giudice «…accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa…per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi…» (così testualmente il primo alinea del comma IV, mentre il comma V dispone, come si è accennato, che “nelle altre ipotesi” il Giudice condanni il datore soltanto al pagamento dell’indennità succitata).

Il discrimine è dunque dato dall’accertamento a) della violazione dei contratti collettivi, oppure b) dalla prova della sussistenza del fatto contestato.

Se la prima ipotesi non appare per nulla problematica, dovendo il Giudice riscontrare soltanto se la fattispecie in esame è punita dai contratti collettivi con sanzioni conservative, ben più spinosa è la seconda.

Si sono contrapposte al riguardo due diverse interpretazioni della norma. Da una parte si è ritenuto che il “fatto” – la cui sussistenza, si ripete, impedisce la reintegrazione del lavoratore, pur in presenza di un’accertata illegittimità del provvedimento datoriale – dovesse riferirsi al fatto materiale (ossia all’accadimento storico che dà luogo alla contestazione disciplinare).

Da altro versante si è invece ritenuto che il “fatto” vada inteso in senso giuridico (comprensivo del profilo soggettivo, del requisito di proporzionalità, ecc.).

L’importanza della questione, oltre che sul piano interpretativo, deriva dagli effetti che ne discendono. Se si sposa la prima ipotesi (il fatto come fatto materiale), il Giudice dovrà limitarsi ad accertare la mera sussistenza del fatto contestato e in tal caso condannare il datore unicamente al pagamento dell’indennità risarcitoria (da 12 a 24 mensilità) escludendo la reintegrazione; nell’altro caso (il fatto come fatto giuridico), il Giudice dovrà accertare in modo molto più pregnante la sussistenza di tutti quegli elementi che normalmente accompagnano il mero riscontro del fatto materiale e, soltanto in caso di accertata loro sussistenza, potrà evitare di disporre la reintegrazione del lavoratore limitandosi alla condanna di natura economica.

La giurisprudenza sembra propendere per la seconda alternativa. Si consideri al riguardo la pronunzia del Tribunale di Bologna del 15 ottobre 2012 (in Corriere del merito, fasc. n. 3/2013 p. 272 ss.) , con la quale è stato affermato che «Ia norma in questione, parlando di fatto, fa necessariamente riferimento al fatto giuridico, inteso come fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e della sua componente inerente I’elemento soggettivo». 

Per il giudice bolognese una diversa interpretazione violerebbe «i principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza e alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo».

Si veda pure la sentenza del Tribunale di Ravenna, sent. 18 marzo 2013 (in Il Lavoro nella giurisprudenza, fasc. 6/2013 p. 567 ss.) secondo cui «il fatto valevole ai fini della scelta della sanzione non può che comprendere tutto il fatto nella pienezza dei suoi elementi costitutivi (sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo) alla luce della nozione di giusta causa».

 

La legge n. 92/2012 (che indirizza la valutazione sulla “insussistenza del fatto”) richiederebbe dunque una valutazione giudiziale della rilevanza e della gravita dei fatti addebitati al lavoratore, alla luce del contesto in cui essi si sono verificati. Anche all’esito della recente riforma, pertanto, nella materia dei licenziamenti disciplinari resterebbe intatta la fondamentale norma di cui all’articolo 2106 del codice civile: il Giudice non è tenuto solo ad accertare l’effettiva sussistenza del fatto contestato nella sua materialità, ma deve valutare – fra l’altro – oltre ai profili soggettivi di dolo e colpa, anche se esso risulti così grave da giustificare l’applicazione della sanzione del licenziamento disciplinare con la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro (anche recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10337 del 21 giugno 2012, ha ribadito, ma per una fattispecie sorta prima dell’entrata in vigore della riforma, la centralità dell’apprezzamento del Giudice nella valutazione della fattispecie in base al principio generale di ragionevolezza e proporzionalità).

Così interpretata, la disposizione di legge ha ora una portata molto meno “rivoluzionaria” di quella che ad una prima lettura sembrava possedere. Che ciò sia un bene o meno, è altra questione, che ciascuno potrà valutare secondo i propri orientamenti soggettivi.