Fisco, pressing alto sulle imprese italiane

ALESSANDRO FONTANAPer Alessandro Fontana – Centro Studi Confindustria – la comparazione europea del livello di tassazione sul reddito aziendale e sul lavoro fa emergere un ampio divario tra il nostro e gli altri Paesi, che si traduce in minore competitività e, a cascata, in una minore attrattività per gli investimenti, non solo dall’estero. Il gap riguarda tutte le imposte che incidono sull’attività di impresa, ma in modo particolare quelle che pesano sul lavoro

 

Dottor Fontana, il fisco oggi pesa non poco sulla capacità competitiva delle imprese. Il confronto con gli altri Paesi poi è a dir poco avvilente. Cosa accade in materia di fisco fuori dell’Italia?
Il livello, la composizione e la complessità della tassazione italiana originano nel nostro Paese un contesto ambientale che di fatto scoraggia notevolmente l’attività d’impresa.
La comparazione europea del livello di tassazione sul reddito aziendale e sul lavoro fa emergere un ampio divario, che si traduce in minore competitività e, a cascata, in una minore attrattività del Paese per gli investimenti, non solo dall’estero. Il divario riguarda tutte le imposte che incidono sull’attività di impresa, ma in modo particolare quelle che pesano sul lavoro.
Nello specifico, la tassazione dei redditi d’impresa in Italia è superiore alla media dell’Eurozona e dell’UE-27. L’onere fiscale gravante sui profitti, nel 2011, è stato pari al 2,8% del PIL contro una media di 2,5% nell’Eurozona e di 2,6% nell’UE-27. Per l’Italia il gettito include, oltre all’IRES, anche l’IRAP sul valore aggiunto al netto del costo del lavoro. 

Tra i quattro più importanti partner europei, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, solo la Gran Bretagna ha registrato un’incidenza del gettito sul PIL superiore a quella del nostro Paese: 3,1%. L’aliquota implicita italiana è stata pari al 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a quelle di Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Dal 1995 al 2011 l’Italia ha visto crescere in misura maggiore l’aliquota implicita, indicatore che deriva dal rapporto percentuale tra le imposte pagate, i contributi sociali e il reddito da lavoro indipendente e che – in quanto aliquota media – dà la misura di quante risorse di autofinanziamento di fatto vengano sottratte all’impresa.

Sempre tra i paesi euro, l’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sui redditi da lavoro, misurata con l’aliquota implicita, è stata in Italia seconda solo al Belgio: 42,3% nel 2011 contro il 42,8% del Belgio, il 37,7% dell’Eurozona e il 35,8% della media dei 27 paesi dell’Unione.

Il fisco è invece decisamente meno vessatorio per i nostri più importanti partner europei che fanno registrare percentuali più ragionevoli e di gran lunga inferiori a quelle italiane: Francia 38,8%, Germania 37,1%, Spagna 33,2%, Regno Unito 26,0%. Vale la pena ricordare inoltre che in Italia oltre ai contributi sociali più elevati che altrove e legati all’ingente spesa pensionistica, le imprese sono vessate anche dalla quota di IRAP calcolata sul costo del lavoro.

È dalla metà degli anni ‘90 che nel nostro Paese il livello di tassazione sul lavoro ha preso ad aumentare in maniera sostenuta, innalzandosi in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, dando vita così a una forbice che rallenta di molto le performance competitive delle nostre imprese. La situazione poi è addirittura peggiorata con l’insorgere della crisi che ha fatto crescere ulteriormente l’aliquota implicita sul lavoro, toccando il picco del 42,9% nel 2008, per poi tornare nel 2011 al livello del 2007. In media nell’Eurozona, nel 2011 l’aliquota implicita era invece a un livello inferiore a quello registrato nel 2007.

Un riequilibrio sarebbe pertanto necessario tra tassazione sul lavoro e sui consumi. Ciò farebbe aumentare i prezzi dei beni importati mentre quelli dei beni prodotti internamente beneficerebbero della riduzione del cuneo fiscale e contributivo.

Un altro modo per confrontare il livello della tassazione è l’elaborazione effettuata ogni anno dalla Banca mondiale nel rapporto Doing Business avendo come riferimento una Pmi-tipo per stimare il  total tax rate, ovvero l’ammontare complessivo delle tasse pagate da imprese aventi caratteristiche standard, ma residenti nei 189 paesi considerati (nel computo sono comprese le imposte, locali e statali, su profitti, immobili, autoveicoli e carburanti, tenendo conto di deduzioni e detrazioni e i diversi contributi sociali versati; mentre sono escluse le imposte sui consumi e quelle raccolte per conto delle autorità fiscali in qualità di sostituto d’imposta).

Per il 2012, l’Italia ha fatto registrare un record negativo a livello mondiale: il suo total tax rate è risultato infatti il 16esimo più elevato al mondo: pari al 65,8% degli utili. Non solo. È anche il più elevato tra i più importanti paesi avanzati, seguito dalla Francia (64,7%) e, a distanza, dalla Spagna (58,6%).

Ponendo sempre l’Italia in parallelo con altri paesi europei, qual è l’incidenza della evasione fiscale?

Le ultime stime ufficiali ISTAT dell’economia sommersa in l’Italia si riferiscono al 2008. In quell’anno il sommerso era in aumento rispetto al 2007 di circa il 3,5% ed era compreso tra un minimo di 255 miliardi, il 16,3% del PIL, e un massimo di 275 miliardi, il 17,5%. In mancanza di aggiornamenti da parte dell’ISTAT, per i suoi calcoli il Centro Studi Confindustria si è avvalso delle ultime stime elaborate da Friedrich Shneider (stime che hanno il vantaggio di rendere possibili confronti internazionali) che indicano che in Italia l’economia sommersa nel 2012 era pari al 21,6% del PIL, il valore più elevato dell’Eurozona (dopo Estonia e Cipro). Sulla base di questo numero, in Italia, la pressione fiscale effettiva, quella che grava sui contribuenti che adempiono tutti gli obblighi fiscali, sarebbe pari al 56,2% del PIL: la più alta in Europa e ben superiore a quella ufficiale (apparente) pari al 44,0%. Il gettito fiscale evaso, stimato applicando la pressione fiscale effettiva alla quota di PIL sommerso, sarebbe pari a circa 190 miliardi, il 12,1% del PIL; circa 9 miliardi in più del 2011.

E quale tributo sarebbe più facilmente o frequentemente non corrisposto?
Guardi, la metodologia richiamata non permette di calcolare l’evasione singola per ciascun tipo di imposta. Perciò per il 2009, utilizzando una diversa metodologia di stima del sommerso, il CSC ha quantificato il gettito fiscale evaso per singole imposte. Allora l’evasione complessiva era stimata in 124,5 miliardi, l’8,2% del PIL.
Nel dettaglio, il mancato gettito si attestava sui 31,5 miliardi (2,1% del PIL), quello IRES in 8,0 miliardi (0,5%) e quello IRAP in 6,3 miliardi (0,4% del PIL), mentre 43,2 miliardi (2,8%del PIL) era la stima dei minori incassi dovuti all’evasione sui contributi sociali, sulle altre imposte indirette e sui tributi locali. 

Se queste risorse fossero recuperate, ci sarebbero quindi i margini per ridurre le aliquote?
Il contrasto effettivo dell’evasione, fino alla sua eliminazione, porterebbe a una riduzione media delle aliquote pari al 15,9%. Un abbassamento di non poco conto che comporterebbe un aumento in busta paga non certo trascurabile.
Con tale diminuzione e sulla base dei dati OCSE riferiti al 2012, la retribuzione netta annua di un lavoratore-tipo aumenterebbe di 1.415 euro e, a parità di retribuzione lorda, il costo del lavoro comprensivo di IRAP si ridurrebbe di 1.711 euro all’anno. 

L’industria in senso stretto è il settore dove l’evasione è minore e quindi la tassazione incide in modo più accentuato (quasi il 93% del valore aggiunto è emerso). È anche il settore più esposto alla concorrenza internazionale e che ha bisogno più degli altri di contenere i costi.

La lotta all’evasione diventa quindi, oggi più che mai, irrinunciabile ma va portata avanti abbandonando vecchi e sterili approcci del passato: non è più sufficiente infatti limitarsi ai controlli ai grandi contribuenti. Occorrono maggiori risorse e tecnologie più raffinate per combattere l’evasione come fenomeno di massa.

Il contrasto all’evasione però non è la sola priorità. Infatti, l’abbassamento dell’evasione fiscale ridurrebbe sì il carico fiscale – pagare tutti per pagare meno – ma, seppur accompagnata dall’abbassamento delle aliquote, non avrebbe alcun effetto sulla pressione fiscale (apparente) complessiva (e quindi anche sui numeri riportati in precedenza). L’eliminazione dell’evasione cambierebbe la distribuzione del prelievo tra settori ma non l’ammontare complessivo del gettito incassato.

La via maestra per abbassare il livello di pressione fiscale nel nostro Paese resta la revisione della spesa pubblica che dovrebbe corrispondere anche a un miglioramento qualitativo  dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione.

La maggioranza degli imprenditori, poi, valuta il sistema fiscale poco chiaro, dominato dall’incertezza e dalla complessità dei tributi. Quali balzelli andrebbero eliminati subito per rendere il sistema più stabile e coerente?
È così. In Italia non sono soltanto l’evasione e l’alta tassazione a frenare la competitività. Queste si associano a un’accentuata incertezza normativa che rende difficile assolvere gli obblighi fiscali e contributivi. La complessità normativa è riconducibile all’eccessivo numero di regole, troppo spesso confuse e contraddittorie. Inoltre, le norme vengono cambiate frequentemente e spesso applicate retroattivamente. Ciò rende particolarmente onerosi gli adempimenti. 

Un esempio concreto di queste distorsioni?
Uno su tutti: il numero dei pagamenti che un’impresa-tipo deve effettuare in un anno per assolvere agli obblighi fiscali e contributivi. Nel nostro Paese, un’impresa-tipo deve fare 15 l’anno, contro gli 8 del Regno Unito e i 9 della Germania. Numeri che la dicono lunga sul livello di farraginosità e macchinosità cui sono loro malgrado costretti a confrontarsi i nostri imprenditori.
Come se non bastasse, poi, per preparare i documenti necessari ed eseguire materialmente i pagamenti delle imposte sul reddito d’impresa, dei contributi sociali e dell’IVA occorrono 269 ore l’anno, più del doppio del tempo richiesto nel Regno Unito (110), in Francia (132) e inferiore solo a quello necessario in Giappone (330) e Portogallo (275).

Perciò occorre intervenire urgentemente per semplificare la normativa e alleggerire il carico di adempimenti, che si aggiunge a quello della pressione fiscale nel penalizzare la competitività delle imprese che operano in Italia.