Suspence, ovvero l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità emotiva

Una personale di Max Coppeta negli spazi della ART IN Galler y di Milano mostra il sogno sospeso, il desiderio di bloccare il fuggitivo, il transitorio, il contingente. Quella metà dell’arte di cui l’altra è l’eterno, l’immutabile
Inserito in un contesto assorbente che frulla le varie voci della creatività umana, il lavoro di Max Coppeta presente fino al prossimo 25 febbraio 2017 negli spazi della ART In Gallery di Milano, è specchio che riflette la forma dello spettacolo per sfidare le apparenze, attraversare le funzioni dell’oggetto, giocare con le finzioni, i simulacri, le ombre e le sembianze di uno scenario fenomenico instabile, inarrestabile, veloce.

Con il desiderio di investigare l’artificiale e il naturale Coppeta produce, sin dalle sue prime azioni, cortocircuiti riflessivi e costruttivi tra il tangibile e l’alfanumerico per focalizzare teoricamente l’attenzione in limine, muoversi sulla soglia, trasformare il corporeo in incorporeo e, viceversa, l’irreale in quello che irreale non è.

 

La sua partita è tutta giocata sul terreno fragile di una realtà che si inclina alle magie tematiche dell’interazione simulata per dar luogo ad una avventura stilistica che si nutre tanto di abbecedari strettamente tecnologici quanto di espedienti sovversivi nei confronti del software impiegato, fino a creare forme e formule visive designate a mostrare un’atmosfera legata al sogno, al sogno di un sogno.

Dal vetro alla plastica, dal metacrilato alla resina, i suoi lavori costruiscono un’illusione che ferisce l’illusione e mostra gli stratagemmi logici dell’immaginazione per deragliare -e far deragliare lo spettatore – dai luoghi della ragione ai circuiti senza fili della fantasia.

La rivendicazione di un presente intrappolato nella fissità del tableaux vivant, porta Coppeta, negli ultimi tempi, a varcare la soglia della chimera o del sogno, per concepire una particolare Naturnachahmung che si solidifica sotto l’effetto preventivo di materie artificiali e per produrre opere la cui plastica arresta definitivamente il tempo – questa azione vale prevalentemente per le Piogge sintetiche – e mette in moto lo spazio secondo direttive gestaltiche dove percepire significa concettualizzare, organizzare le forme seguendo la duplice modalità cognitiva del flusso intellettuale e del flusso intuitivo.

 

Il funzionale lascia il posto al finzionale leibniziano (a qualcosa che non è sempre parte della realtà), per costruire sculture che partono dai processi di pensiero informati e arrivano a quelli percettivi mediante l’incanto, la meraviglia, l’evocazione di qualcosa che sta per fuggire ma resta perennemente intrappolato in un involucro sovratemporale e sovrastorico prodotto mediante la totale assenza della mano dell’artista che produce una scultura pigra, espressione esatta della nostra contemporaneità che sostituisce con l’automazione tutte le forme di manualità.

Grazie all’utilizzo di macchine con utensile da taglio a controllo numerico che produce fenditure a secco, Coppeta crea sorprendenti capsule del tempo che fermano il flusso inarrestabile del quotidiano e mostrano la volontà di far riapparire le cose, di portare duchampianamente l’ombra nell’opera, di farla diventare parte integrante dell’opera.

 

Seguendo i processi di osservazione e interpretazione messi in campo da Arnheim, Coppeta crea una differenza d’approccio del quadro naturale, sposta l’asse su un piano essenzialmente emotivo, ricerca il valore del sogno ad occhi aperti, presenta l’immateriale mediante ombre proiettate, trasforma l’opera in un accumulatore di conoscenza.
Fortemente legato ad un gusto di stampo cinetico dove l’attuale lascia il posto al fattuale, Coppeta disegna una visione eterocosmica che assume la luce come ingrediente totalizzante, come collante privilegiato tra l’opera e lo spazio, tra la fissità dell’oggetto e il movimento prodotto dall’inevitabile mormorio del getto luminoso.
Consapevole che la comprensione nella logica del ragionamento agisce allo stesso modo della percezione nella logica del sensorio, e che il pubblico è un interprete che apre gli occhi e le orecchie ai messaggi trasmessi dalla forma, Max Coppeta elabora dunque un discorso che si nutre di regola e caso, di strutture mobili o immobili, di procedimenti che volgono lo sguardo all’asimmetrico e al simmetrico cadenzare ritmico della forma per riunire sotto uno stesso cielo estetico, il manuale, il materiale e il mentale, fino a elaborare un rebus visivo che fa i conti con le logiche instabili della quotidianità.

Con l’unitaria continuità e l’irrequietezza empirica di tenere aperti vari cantieri creativi, Max Coppeta mostra arterie riflessive che si nutrono di controspazi – è il caso di Zero Gravity (2013), un apparecchio sulla natura della gravità e sull’instabilità delle cose o di ingranaggi che assorbono il corpo luminoso – Spyglass (2013), Long Drop (2014), Flow (2015) e Strip of Wind (2016) – per trattarlo e trasformarlo mediante la trasparenza dei materiali adottati e l’analisi costante sulle piogge.

 

Strumento di espressione privilegiata per offrire una visione emotiva e sensoriale, la luce è per Coppeta luogo fragile e indecifrabile che modifica e perfeziona l’opera, che accentua le deformazioni liquide, la ritmicità, il suono, la partitura musicale degli elementi adottati. Dal 2014, con una serie di bi-crome, Coppeta richiama alla memoria Yves Klein svuotandolo però di ogni forma di spiritualità e recuperandolo soltanto nella forza rituale del fare che resta, per lui, fondamento d’un processo che porta all’opera.

Le piogge nere, d’altro canto, mirano ad una concavità, ad una chiusura, ad un risucchio luminoso, ad una somma cromatica che richiama alla memoria la visione suprematista di Malevič e i cellotex di Alberto Burri. Nelle ultime Calligrafie del 2016 l’artista mira a tradurre in grafia il suono della pioggia, a creare ritmi, a costruire fonografie.
Dopo le prime piogge su vetro l’idea di riprodurre, di clonare, di rifare la natura mediante l’ausilio di processi artificiali porta Coppeta a ripensare la musicalità dell’opera plastica – Rainmaker (2016) è propriamente un dispositivo sonoro – per dar luogo a ulteriori congelamenti, a teatri sospesi che rendono reale l’areale, a luoghi che mostrano come e quando uno spettacolo viene interrotto.
Come un immoto andare, una corsa trattenuta, un istante frenato, inevitabilmente bloccato, il nucleo di lavori prodotti negli ultimi anni disegna un itinerario che trasforma la sospensione in riflessione, in analisi costante di quello che è stato e che mai più sarà.