Plusvalenze nel Sale and lease back, via libera della Cassazione allo splitting

Marco FiorentinoLa contabilizzazione degli effetti di una operazione di leaseback ha natura asimmetrica, ma comunque sempre fiscalmente rilevante: le plusvalenze sono imponibili in via frazionata lungo la durata del contratto, mentre le minusvalenze sono immediatamente deducibili nell’esercizio di realizzazione

 

Il Sale and lease back (più semplicemente, Leaseback) è un’operazione con cui un’impresa trasferisce un proprio bene ad una società di leasing, la quale lo concede contestualmente in locazione finanziaria all’impresa cedente, in corrispettivo del pagamento di canoni periodici, con facoltà per la cedente di riacquistare il bene alla scadenza verso il pagamento di un corrispettivo predeterminato.
Il contratto ha la chiara finalità finanziaria di far ottenere velocemente all’impresa una somma liquida, mediante l’alienazione di un immobile (di solito) strumentale, di cui però conserva il possesso, per effetto della sua contestuale retrolocazione da parte della società di leasing.

Attorno al tema del trattamento fiscale delle plusvalenze, che vengono realizzate dalle imprese con la cessione del bene, si è da tempo radicato un vasto dibattito, posto che le posizioni della Dottrina e dell’Amministrazione Finanziaria sono del tutto differenti.

La prima propende per una configurazione sostanziale del Leaseback, e quindi per un concorso al reddito della plusvalenza correlato ai costi, rappresentati dai canoni di retrolocazione (principio di derivazione).

E tale principio di derivazione (del reddito tassabile dal risultato di esercizio) troverebbe le sue basi tecnico-giuridiche, sia nell’Appendice D all’OIC 12, sia nel quarto comma dell’articolo 2425bis del codice civile (introdotto dall’articolo 16 Decreto legislativo 310/2004), i quali prevedono espressamente, quale procedura contabile corretta per i casi di Leaseback, il frazionamento della plusvalenza realizzata, lungo la durata del contratto di retrolocazione finanziaria.

La seconda nega di contro tale possibilità affermando, con la circolare 38/E/2010, che la disciplina, dettata dall’articolo 2425-bis citato (nonché dall’Appendice D), non troverebbe applicazione in ambito tributario.

Ciò in quanto – a parere dell’AGE – in mancanza di norme specifiche nel TUIR, l’eventuale plusvalenza generatasi dall’esecuzione di questi contratti deve essere assoggettata alla disciplina generale dell’articolo 86 TUIR (Plusvalenze) e concorrere quindi alla formazione del reddito nell’esercizio di conseguimento, ovvero, ricorrendone i presupposti (possesso triennale), in quote costanti nell’esercizio medesimo e nei quattro successivi.

La Corte di Cassazione con la pronuncia n. 35294 del 23 agosto 2016, ha trattato il tema, aderendo alla posizione opposta all’interpretazione resa dagli Uffici.
In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che le regole contabili di cui all’articolo 2425 bis, comma 4 citato, che impongono il frazionamento della plusvalenza per la durata del leasing di ritorno, assumono una diretta valenza fiscale.

Pertanto, in ossequio al generale principio di derivazione del reddito d’impresa dal risultato civilistico, l’imponibilità della plusvalenza da Leaseback deve essere frazionata lungo la durata del contratto anche dal punto di vista fiscale.

Il sottostante giuridico di questa impostazione (la ratio dell’articolo 2425 bis) è il generale atteggiamento di prudenza nelle rilevazioni contabili, volto ad evitare la possibilità di iscrizione di ricavi non “effettivi”, in quanto legati all’assunzione di costi futuri (il pagamento dei canoni di leasing).

In buona sostanza, la Cassazione ha bacchettato l’AGE sulla presunta inesistenza di una norma di legge sul trattamento fiscale, invitandola a leggersi il richiamato articolo 2425bis codice civile.
In linea di principio, la massima della Suprema Corte dovrebbe fornire anche un’implicita interpretazione sulla questione opposta, relativa all’imputazione temporale delle minusvalenze, che eventualmente possano sorgere nei contratti in oggetto.

Infatti, se il richiamo al principio di derivazione (articolo 83 TUIR) produce l’effetto di dare rilevanza fiscale al frazionamento della plusvalenza ai sensi dell’articolo 2425 bis comma 4, allora si può affermare che i medesimi principi si possono invocare – sempre in mancanza di una norma fiscale ad hoc – anche nell’ipotesi di minusvalenze.
Ovviamente, le minusvalenze non soggiacerebbero alla regola del frazionamento – che disciplina esclusivamente le plusvalenze – ma, asimmetricamente, al principio di prudenza sopra descritto, che governa la redazione del bilancio d’esercizio. Ne consegue che, quando l’esecuzione del contratto di leaseback genera una minusvalenza, sarà proprio il principio di prudenza a imporre la rilevazione integrale della componente negativa emersa.

Salvo “ritorsioni” o cambiamenti in verità giuridicamente impossibili, questa impostazione troverebbe anche conferma nella circolare 38 citata, che espressamente statuisce la deducibilità dell’eventuale minusvalenza nell’esercizio del suo conseguimento, in applicazione dell’articolo 101 TUIR.

In conclusione, la contabilizzazione degli effetti di una operazione di leaseback ha natura asimmetrica, ma comunque sempre fiscalmente rilevante: le plusvalenze sono imponibili in via frazionata lungo la durata del contratto, mentre le minusvalenze sono immediatamente deducibili nell’esercizio di realizzazione.
Questa sentenza ha due ricadute significative: rende giustizia allo strafalcione tecnico dell’AGE, figlio solo di voglie di gettito e fa aumentare l’appealing delle operazioni di finanziamento del business, attraverso il leaseback.

 

Speriamo che la Suprema Corte non ci ripensi: è già successo, purtroppo.