PER UN FUTURO DAVVERO SOSTENIBILE

Giovanni De Feo, professore di ecologia industriale all’Università di Salerno: «Energia, inquinamento, cambiamento climatico: per ciascuno di questi problemi va costruita più di un’alternativa, scegliendo poi quella che, con un approccio multicriteriale, sia capace di ottimizzare le tre variabili ambientale, economica e sociale»

 

Professore, in molti avevano detto che il mondo post covid doveva essere circolare. Poi la guerra in Ucraina, il caro energia e quello delle materie prime. A oggi quanto valgono e quanto vengono applicate le soluzioni offerte dall’economia sostenibile? Il riciclo può essere la risposta sia in termini di riduzione degli inquinanti, sia dei consumi di energia?

Sfatiamo subito un mito: l’economia circolare non esiste, così come non esiste l’economia lineare. L’economia reale è in parte lineare e in parte circolare. A rigore, bisognerebbe parlare di economia “quasi” circolare. Infatti, non è possibile chiudere il cerchio in maniera perfetta, poiché alla fine “avanza” sempre qualcosa. L’economia rurale era molto più circolare di quanto si pensi e molti processi, oggi ritenuti sostenibili, sono meno circolari di quanto si possa pensare. Un’economia sostenibile è un’economia che tiene conto anche della variabile sociale e deve, quindi, considerare la perdita di posti di lavoro come un elemento di mancata sostenibilità. Il riciclo è un processo industriale e, quindi, richiede materie ed energia in ingresso e produce emissioni e rifiuti che, a loro volta, generano impatti e danni ambientali.

In ogni occasione occorre costruire più di un’alternativa risolutiva del problema e scegliere l’alternativa più sostenibile, che con un approccio multicriteriale ottimizza le tre variabili ambientale, economica e sociale. Quindi, non si può dire che il riciclo sia sempre la scelta più sostenibile, ma occorre valutare caso per caso, senza pregiudizi.

L’Italia ha chiuso 32 discariche; all’appello ne mancano 12. La Commissione europea ha concesso al nostro Paese due mesi – di cui uno già trascorso – per porre rimedio alla situazione. In caso contrario, la Commissione potrebbe decidere di adire la Corte di giustizia dell’Ue. Quanto è concreto questo rischio?

Si tratta chiaramente delle discariche costruite e gestite in difformità alla Direttiva 1999/31/CE e successive modifiche e integrazioni. Invece, la discarica controllata, costruita e gestita in ottemperanza alla Direttiva europea, così come recepita dal Legislatore nazionale, è un elemento del sistema di gestione dei rifiuti e la sua assenza è fonte di problemi. Proprio per la carenza di discariche controllate in Campania, l’Italia paga 40.000 euro al giorno da luglio 2015 e al momento disponiamo di sole due discariche per rifiuti non pericolosi in via di esaurimento, mentre siamo l’unica regione a non avere alcuna discarica controllata per rifiuti pericolosi, mentre la piccolissima Valle d’Aosta ne abbonda.

Sul piano della gestione dei rifiuti cosa ancora non funziona nel nostro Paese e, più nello specifico, nella nostra regione?

Complessivamente come Paese non siamo messi male per quanto riguarda la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti speciali.

Chiaramente la situazione cambia molto spostandosi dal Nord al Sud, dove il problema principale è la carenza impiantistica, soprattutto in termini di impianti di trattamento della frazione organica e impianti di trattamento termico con recupero energetico. Per quanto riguarda gli inceneritori, ad esempio, su tutti si segnala la situazione deficitaria della Sicilia e del Lazio, con la situazione di Roma tristemente famosa in tutto il mondo sia per l’invio fuori regione e fuori nazione dei rifiuti, sia per le assurde immagini dei cinghiali che albergano nei pressi dei cassonetti…

In Campania, il principale problema è la carenza di impianti di trattamento dell’umido, per circa 450.000 tonnellate l’anno, unitamente a una non elevata percentuale di raccolta differenziata, ferma al 54%, e a una non elevata purezza dei materiali da raccolta differenziata, caratterizzati da un’eccessiva presenza di frazioni estranee soprattutto per quanto riguarda l’organico e la carta.

Lei ha sempre rimarcato quanto fosse necessario che alla base dell’ideazione dei prodotti industriali ci fosse la possibilità concreta di disassemblarli facilmente in materiali omogenei da avviare al relativo processo di riuso o recupero. Sul versante dell’ecodesign il nostro mondo produttivo è migliorato?

Purtroppo si producono prodotti sempre più complessi e poco disassemblabili. Si pensi, giusto per citare un esempio, alle apparecchiature elettriche ed elettroniche e ai televisori, in particolare.

Una volta un apparecchio televisivo si poteva aprire e sostituirne singole componenti. Ora siamo, in pratica, alla black box, per non parlare, poi, dell’obsolescenza tecnologica programmata, con il ciclo di vita dei prodotti che si accorcia sempre di più…

Sulla base degli ultimi dati Istat sull’inflazione, il costo di Gpl e metano è salito del +43,6%. Eppure, dalla frazione umida per fermentazione potremmo ricavarne metano. Quanto sarebbe utile investire in questa direzione?

Sarebbe utilissimo. Giusto per avere un’idea, partiamo dalle 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani che annualmente produciamo in Italia. Un terzo è costituito da frazione organica che potrebbe essere inviata a digestione anaerobica per la produzione di biogas da affinare a metano.

Da ogni tonnellata di rifiuti organici potremmo tirare fuori 90 standard metri cubi di metano arrivando così a coprire la domanda di circa tre milioni di persone, per le quali, quindi, non dovremmo più importare gas naturale dall’estero. Naturalmente, la digestione anaerobica non si applica solo agli scarti organici di cucine e ristoranti ma anche ai sottoprodotti organici delle attività agricole e zootecniche.

La riduzione degli impatti ambientali sarebbe notevole accompagnata da una riduzione dei costi per gli utilizzatori, cioè le famiglie e le industrie.

Per la plastica si parla di riciclo avanzato. Cosa vuole dire e quali sarebbero i vantaggi?

Le materie plastiche soffrono di un’ipersemplificazione della comunicazione sintetizzabile in slogan come “plastic free”.

Il problema, infatti, non è la plastica in sé, ma l’eccessivo utilizzo di materiali monouso, soprattutto quando vengono dispersi nell’ambiente e non correttamente avviati al riciclo. A tal proposito, oltre al riciclo meccanico e al recupero energetico delle pastiche post consumo, si stanno sempre più affacciando nel mondo della ricerca e anche sul mercato i processi di riciclo chimico dei polimeri. Questi ultimi comprendono tutti i processi che modificano chimicamente i rifiuti polimerici per ottenere materiali ad alto valore aggiunto, come i relativi monomeri. Esempi di processi di riciclo chimico dei rifiuti plastici sono la depolimerizzazione, la pirolisi, la gassificazione, solvolisi, etc..

Questi consentono di trattare più efficacemente materiali come gli imballaggi multistrato e le miscele plastiche complesse per i quali il tradizionale riciclo meccanico si dimostra poco o per nulla efficace.

In termini di consapevolezza, è cresciuta la coscienza ambientale degli italiani?

La strada da fare per raggiungere una piena consapevolezza delle problematiche ambientali è stretta e in salita, poiché molti processi, come i cambiamenti climatici, avvengono molto lentamente e non tutti si rendono conto della necessità di invertire la rotta immediatamente, altrimenti corriamo il rischio di fare la fine del famoso aneddoto della rana nella pentola sul fuoco.

Ritenendo trascurabili gli incrementi di riscaldamento, infatti, giunge a un cambiamento complessivo per lei fatale. È lo stesso identico rischio che corriamo noi, con la differenza che non dobbiamo gestire solo il problema del riscaldamento globale e della plastica negli oceani. Per nostra sfortuna i problemi ambientali sono innumerevoli e della maggior parte di essi siamo noi ad esserne responsabili. A noi, quindi, tocca prenderci cura delle cose per costruire insieme un futuro davvero sostenibile!