L’unione fa la forza per lo sviluppo del settore agroalimentare

Il nostro territorio esprime tante eccellenze ma siamo ancora indietro nella capacità di concepirci come un sistema complesso che può e deve fare massa critica

 

Abbiamo già detto dell’importanza nel nostro territorio di tutto il settore agroalimentare allargato, che comprende cioè non solo chi produce e chi trasforma ma anche tutto il comparto della logistica, del packaging, dei servizi…

Tuttavia nel foodsystem contemporaneo gli attori più deboli della filiera sono proprio quelli che si occupano della produzione primaria e della trasformazione. E questo colpisce soprattutto chi lavora a produzioni di eccellenza e di grande qualità i quali, all’interno di meccanismi e interessi che tendono a privilegiare la produzione standardizzata, rischiano l’insostenibilità economica della loro attività.

Il cibo è, sempre di più, una commodity, soprattutto a causa della forza della Grande distribuzione organizzata, che orienta e trasforma il valore del cibo riducendolo solo ed esclusivamente al “prezzo basso”. E se la GDO vuole vendere i prodotti a un prezzo basso li deve per forza comprare a un prezzo basso e, a ritroso, l’industria che vende al ribasso alla GDO si rifarà sull’agricoltore e sul fornitore di materie prime; quest’ultimo cercherà di aumentare le rese (magari usando prodotti chimici in contro tendenza alle direttive della PAC) e di ridurre al massimo le spese accessorie (compreso il costo del lavoro dei suoi dipendenti). Più il prodotto sarà indistinguibile per la sua qualità, più tutto si misurerà sulle quantità prodotte, lavorate e distribuite.

In questo contesto, specialmente se non si tratta di multinazionale di grandissime dimensioni, può valere il detto “l’unione fa la forza” che diventa una soluzione per gestire criticità legate a complessità di sistema che, da soli, è difficile affrontare. Nel mondo della produzione e dell’impresa è un principio che applicano, per esempio, i soggetti cooperativi. La cooperazione nasce, di fatto, con un intento mutualistico e per far fronte alla mancanza di capitale da investire nei mezzi di produzione. Ed è una formula di successo tanto che tra tutti i soggetti cooperativi, sono le cooperative agricole a presentare il contributo più significativo al fatturato nazionale complessivo con il 32,5%, seguite da quelle di produzione e lavoro con il 17,9%. Ma non è tanto della forma organizzativa delle cooperative che intendo parlare, quello che è importante evidenziare è come la scelta di aggregarsi consenta, dunque, di rafforzare le capacità individuali (di un solo soggetto o di un’impresa), soprattutto in settori come la produzione agricola. Per questo è interessante citare un altro meccanismo di aggregazione che mostra come l’unione possa fare la forza per riuscire a far emergere il valore reale dei prodotti e per raccontare cosa sta dietro e intorno alla qualità di un prodotto alimentare. È il caso dei riconoscimenti di qualità attribuiti attraverso le Indicazioni Geografiche (DOP, IGP, STG) che rendendo riconoscibile la qualità dei prodotti e sono diventati fonte di un’economia nazionale importante (la cosiddetta DopEconomy). Grazie a questo sistema di aggregazione e riconoscimento, in Italia si contano 845 produzioni a indicazione geografica, al lavoro per migliorare i metodi di produzione e l’impatto ambientale. Il valore prodotto è attualmente 19,1 miliardi di euro, di cui 10,7 miliardi generati dall’export, cresciuto del 12,8%. I consorzi di tutela sono 291, i produttori impegnati oltre 198.800.

(Fonte Fondazione Qualivita).

Altra forma aggregativa che rafforza le imprese sono i distretti. Da qualche anno si stanno diffondendo i Distretti del cibo: introdotti dalla legge 205/2017. Sono altre soluzioni di aggregazione tra imprese, enti locali e altri portatori di interesse, che intendono “promuovere lo sviluppo territoriale, la coesione e l’inclusione sociale, favorire l’integrazione di attività caratterizzate da prossimità territoriale, garantire la sicurezza alimentare, diminuire l’impatto ambientale delle produzioni, ridurre lo spreco alimentare e salvaguardare il territorio e il paesaggio rurale attraverso le attività agricole e agroalimentari” (art. 1 co. 499 Legge n. 205/2017).

Come specificato dal Masaf, Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste: i distretti del cibo nascono per fornire a livello nazionale ulteriori opportunità e risorse per la crescita e il rilancio sia delle filiere che dei territori nel loro complesso.

Modelli ecosistemici: l’unione fa la forza perché avvicina le imprese e la ricerca

Negli ultimi anni si vanno diffondendo modelli organizzativi che puntano a favorire una rapida interazione tra ricerca e impresa, al fine di facilitare i processi di innovazione anche tecnologica. È il caso, per esempio, dei Competence Center istituti dal Piano Nazionale Impresa 4.0, dei Digital Innovation Hub, o anche degli hub e spoke in cui un attore centrale concentra risorse, servizi e informazioni coordinando e supportando altri soggetti periferici o unità sussidiarie. Anche nel campo dell’innovazione del sistema agrifood ci sono Competence Center dedicati, Digital Innovation Hub e hub and spoke in cui centri di ricerca, università, imprese e altri soggetti interessati sono coinvolti per rendere più rapidi i cambiamenti che ci servono. Non possiamo in questa sede descrivere la complessità di tutti questi dispositivi e modelli citati, ma ciò che ci preme evidenziare in questo articolo è invece l’elemento-chiave che unisce le esperienze (pur eterogenee) che abbiamo nominato. Ciò che lega i soggetti che decidono di appartenere a queste esperienze di aggregazione è la condivisione valoriale, la condivisione di una missione comune, da compiere insieme, nella condivisione di un interesse comune e collettivo. E su questo – tocca dirlo – siamo davvero ancora indietro.

Come ha sostenuto Aldo Bonomi in un recente articolo “…si potrebbe dire che non si dà distretto manifatturiero senza il cooperare per realizzare un distretto sociale, così come non si darà piattaforma di Intelligenza artificiale senza l’umana costruzione di una piattaforma sociale di tenuta delle forme di convivenza”. Ecco cosa distingue queste esperienze preziose per i nostri territori: la capacità di riconoscere, valorizzare, tutelare e innovare i distretti sociali e le piattaforme sociali che sono la radice di un sistema di produzione, scambio e consumo “competente e inclusivo”. Sono esperienze che contribuiscono a fare coscienza di luogo, contribuendo a creare una nuova narrazione del valore della qualità, un orientamento collettivo all’innovazione che si produce intorno a sistemi di valori condivisi. Bisogna uscire dalla sindrome dei “bambini prodigio”! I profondi e repentini cambiamenti ci dicono che è urgente il tempo di allestire delle vere palestre di innovazione collettiva e condivisa per il nostro territorio.

Tempus fugit. Quando e da dove vogliamo cominciare?