Il Patto della Fabbrica italiano? Un modello per altri Paesi Europei

Anche per i lavoratori atipici, inclusi quelli della gig economy e delle piattaforme digitali, la CES ritiene che la soluzione non sia il salario minimo, ma un contratto degno

Dottor Visentini, il Patto della Fabbrica vede insieme Confindustria e Sindacato per un nuovo modello contrattuale e di relazioni industriali teso, tra le altre cose, ad arginare il fenomeno dei contratti pirata. Il suo commento?
Da un punto di vista europeo, il nuovo accordo tra CGIL-CISL-UIL e Confindustria sugli assetti della contrattazione e della rappresentanza è una riforma molto positiva, che può diventare un modello anche per altri Paesi.
Innanzitutto, per l’analisi macroeconomica condivisa tra le parti, focalizzata sulla necessità di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e la domanda interna come leve essenziali per far crescere la produttività, la competitività, ma anche la qualità del lavoro e della produzione. Poi perché l’intesa rafforza l’impianto della contrattazione su due livelli, tipico del nostro Paese, riaffermando i parametri dell’inflazione, della produttività e della redditività come riferimenti essenziali per la crescita dei salari. E, infine, perché attraverso la certificazione della rappresentatività delle parti, contribuisce a combattere il fenomeno dei contratti pirata (ormai una piaga anche in altri Paesi europei), preservando al contempo l’autonomia delle parti sociali nell’ambito della contrattazione collettiva.
Per tutte queste ragioni la Confederazione Europea dei Sindacati considera questo accordo come un benchmark, un riferimento per come i sistemi contrattuali dovrebbero essere riformati e coordinati a livello europeo.

Non si corre il rischio di delegare tutto a livello aziendale?
Non direi proprio. Al contrario questa riforma rafforza il valore del contratto nazionale, aprendo al contempo nuovi spazi di flessibilità positiva per la contrattazione aziendale. L’equilibrio tra i due livelli è un elemento centrale dell’intesa, e per questa ragione noi preferiamo chiamarla con il suo nome:“Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil”, evitando la semplificazione del “Patto della Fabbrica”.

Negli altri Paesi ci sono situazioni più floride, modelli meglio riusciti?
Dipende dai Paesi. In quelli del nord Europa, e in alcuni paesi dell’Europa centrale, ci sono modelli molto simili. Ma in molti paesi della vecchia Europa, inclusa la Germania, la contrattazione collettiva per come l’avevamo conosciuta prima della crisi (forte contratto nazionale, forti parti sociali, meccanismi di estensione erga omnes dei contratti) è stata pesantemente smantellata dalle politiche di austerità e dalle raccomandazioni della Commissione Europea, per anni incentrate sull’ossessione del decentramento contrattuale.
Oggi la Commissione riconosce che quello è stato un errore grave e che forme di coordinamento contrattuale nazionale e settoriale sono essenziali per il rilancio di una crescita economica sostenibile.
Questo è ancora più vero per i paesi dell’est dell’Europa, dove la mancanza della contrattazione ha determinato da un lato fenomeni di dumping salariale, che hanno pesantemente danneggiato i paesi occidentali, e dall’altro un gravissimo brain drain nei paesi orientali, con milioni di lavoratori, soprattutto giovani, che hanno abbandonato quei paesi per cercare lavoro all’ovest. Per queste ragioni noi pensiamo che l’accordo italiano possa costituire una guida per le riforme negli altri paesi, e ci apprestiamo a presentarlo, assieme a CGIL-CISL-UIL e Confindustria, in un incontro che avremo a breve con la Commissione a Bruxelles.

Il problema di rappresentanza nel nostro Paese – o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza – lo si risolve certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali?

Penso proprio di sì. Ma anche tutelandone l’autonomia e sviluppando relazioni industriali moderne. È una forte contrattazione collettiva, che produce risultati positivi per imprese e lavoratori, che fa crescere la rappresentatività delle parti, non viceversa.

Per aumentare i redditi delle persone, lo strumento più efficace resta la contrattazione collettiva?
Assolutamente sì. È per questo che noi come CES abbiamo promosso una grande campagna europea per la crescita dei salari (“Europe Needs A Pay Rise”), basata sul rafforzamento e sulla estensione della contrattazione nazionale in ogni parte d’Europa. E anche per i lavoratori atipici, inclusi quelli della gig economy e delle piattaforme digitali, la soluzione non è il salario minimo, ma dare loro un contratto degno di questo nome.

La politica sul fronte del lavoro e, più in generale, della strategia industriale cosa è chiamata a fare?
È chiamata ad aiutare le parti sociali a sviluppare relazioni industriali efficienti e moderne. Rispettandone l’autonomia, rafforzandone le prerogative con azioni di capacity building e, dove necessario, disegnando quadri legislativi di supporto, mai impositivi.