Il trust nella crisi d’impresa

GIOVANNI SCIANCALEPOREUna sentenza della Cassazione ha stabilito l’irriconoscibilità dell’istituto in caso di fallimento aziendale e di successiva liquidazione del patrimonio

 La riflessione che segue trae spunto da una sentenza della Cassazione (n. 10105 del 9 maggio 2014), laddove è stata affermata l’irriconoscibilità del trust, istituito nel contesto di una procedura fallimentare, al fine di procedere alla liquidazione del patrimonio aziendale a favore dei creditori.

La non riconoscibilità, indotta dallo stato d’insolvenza preesistente all’istituzione del vincolo, ha – conseguentemente – determinato la nullità dell’atto di trasferimento dei beni al trustee per difetto di causa, a mente del co. 2 dell’art. 1418 c.c.. Coerentemente, è stato ritenuto che all’indomani della dichiarazione di fallimento il curatore legittimamente avrebbe proceduto alla materiale apprensione dei menzionati beni. Alcuna dignità ha avuto la condizione risolutiva apposta al trust in caso di fallimento della società proponente.

Si tratta della prima sentenza della Cassazione sul delicato tema specifico, seppure precedenti fossero rinvenibili presso le Corti di merito.
A tal punto, vanno favorite due differenti prospettive d’analisi: l’una, protesa alla valutazione (e alla forza persuasiva), in punto di diritto positivo, della soluzione applicativa adottata; l’altra, orientata alla ponderazione dell’utilizzazione del trust in sé, quale rimedio a fronte della crisi d’impresa.

In via di prima approssimazione, va rilevato che la tesi della nullità del trust, istituito dall’imprenditore o dalla società in stato d’insolvenza, costituisce l’orientamento prevalente della giurisprudenza (Trib. Milano, 16 giugno 2009, Corte App., Catania, 16 novembre 2012, Trib. Milano, 27 maggio 2013). Il ragionamento, attento al profilo causale della fattispecie, s’incentra sull’ambiguità in sé dell’atto, potenzialmente funzionale sia a sottrarre beni alla garanzia patrimoniale, che a proteggere il patrimonio del debitore da iniziative di singoli creditori che potrebbero compromettere un progetto di composizione della crisi d’impresa. Il sostegno sarebbe rappresentato dall’art. 15, lett. e) della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, laddove la disposizione nell’obbligare i singoli Stati al riconoscimento del trust non ostacolerebbe l’applicazione delle disposizioni a tutela dei creditori, rimandando dunque ad esse per la qualificazione dell’ipotesi di fatto e per l’individuazione dei pertinenti rimedi.

Tuttavia, in concreto, l’eventuale pregiudizio che il trust può porre in essere, nel contesto qui eletto, consiste nella sottrazione dei beni alla procedura concorsuale e, quindi, alla pertinente liquidazione. Non si tratta di un pregiudizio atipico rispetto a quello consumato da qualsiasi altro atto dispositivo lesivo degli interessi del ceto creditorio; laddove, il rimedio a fronte è rappresentato dall’azione revocatoria, con conseguente inopponibilità al fallimento dell’iniziativa posta in essere. Discorrere di nullità s’atteggia come forma di discontinuità rispetto ad un sistema che organicamente reagisce con la menzionata inopponibilità al pregiudizio della garanzia patrimoniale accordata ai creditori. All’inverso, l’idea della nullità dell’atto che istituisce il trust veicola una certa confusione tra profili differenti, rappresentati dalla limitazione della responsabilità e dalla limitazione del patrimonio. Il trust attiene a questo, giammai a quello, in ragione della forza dirimente assunta dalla clausola di salvaguardia contenuta nella Convenzione dell’Aja (art. 15, lett. e). All’inverso, si giungerebbe al paradosso per cui tutti gli atti di disposizione sarebbero considerati limitativi della responsabilità patrimoniale, e ricadendo nel divieto di cui all’art. 2740 c.c., sarebbero affetti da invalidità assoluta.

Non va taciuto inoltre che il trust rappresenta un’avvincente prospettiva applicativa in tempi anteriori al fallimento. In argomento, appare interessante ricordare Trib. Milano (sez. fallimentare), 25 marzo 2010 (in Dir. Fall., 2010, 6, 2, 552, con commento di Greco), nella misura in cui, nel corso della istruttoria pre-fallimentare – in virtù dei poteri creativi di cui all’ 15, co. 8, L.F.- il giudice potrebbe ordinare l’istituzione di un trust per conservare i beni alla massa o per preservarne la destinazione produttiva. In simile ipotesi, la fase della liquidazione e della distribuzione non seguirebbe la legge, piuttosto il regolamento dell’atto istitutivo. A ben vedere, dunque, il trust nella crisi d’impresa può avere virtù risolutiva, anche se istituito dall’imprenditore medesimo o da un terzo a suo supporto. L’osservazione implica la valorizzazione dell’autonomia negoziale e, simmetricamente, un certo ridimensionamento del dogma rappresentato dalla par condicio creditorum.

 

Esemplificativamente (ma in senso emblematico), si ponga mente: ai piani attestati (art. 67, co. 3, lett. d), L.F.), ai concordati o agli accordi di ristrutturazione (art. 67, co. 3, lett. e), L.F.) e alla pertinente esclusione di taluni pagamenti dal novero di quelli revocabili; alle proposte di concordato fallimentare e preventivo (artt. 124, co. 2, lett. b) e 160, co. 1, lett. c), L.F.), attraverso cui è possibile prospettare trattamenti differenziati dei creditori, con il sistema della classificazione. Si tratta, quindi, di soluzioni negoziate della crisi d’impresa, costruite su rapporti di tipo fiduciario. Nel senso indicato, si consideri ancora l’art. 7 della l. 27 gennaio 2013, n. 3, nella misura in cui è disposto che il debitore possa elaborare un piano che contempli “l’affidamento del patrimonio del debitore ad un fiduciario per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori”.

Le osservazioni formulate permettono di considerare realisticamente l’apparente incompatibilità tra trust e fallimento, nella consapevolezza che il “totem” della riserva legale delle cause di limitazioni della responsabilità e della graduazione dei creditori (arr. 2740 e 2741 c.c.) sta cedendo il passo all’autonomia negoziale, meritevolmente organizzata, al fine univoco di risolvere la crisi d’impresa.