Coronavirus, la corsa a passi lunghi del Jenner Institute di Oxford per il vaccino

A fine aprile la somministrazione sui primi 500 volontari. Giacomo Gorini, immunologo italiano nel team di ricerca: «Se i risultati saranno in termini di sicurezza positivi come ci aspettiamo, procederemo su 5.000 persone il prima possibile»

Il mondo della scienza si è messo in moto e alleato per lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus. Lei è parte del team che vede lavorare insieme l’azienda Advent-Irbm e l’Edward Jenner Institute di Oxford. Notizie confortanti in arrivo?
Lo sviluppo di un vaccino sta tenendo impegnati gli scienziati a livello globale. Qui, al Jenner Institute di Oxford, abbiamo rivoluzionato la nostra organizzazione interna proprio allo scopo di unire le forze e concentrarci sul covid-19 con l’obiettivo di arrivare a una risposta vaccinale efficace il prima possibile.

Normalmente mi occupo di studi sulla malaria insieme ad altri scienziati, ma ora collaboro con il gruppo capitanato dalla professoressa Sarah Gilbert con all’attivo anni di ricerca sulle malattie emergenti e vaccini sperimentali contro altri coronavirus. Al momento gli studi con focus diverso dal Covid-19 sono sospesi perché tutto l’Istituto si è dedicato al vaccino. Nello specifico, da immunologo, con dottorato con tesi in immunologia degli anticorpi, mi interesso allo studio degli anticorpi monoclonali, studio cioè a livello molecolare le risposte anticorpali di individui che possono essere stati infettati o vaccinati.

Il mio contributo al progetto vaccino sarà quindi quello di caratterizzare le risposte anticorpali di quei volontari che si uniranno alla sperimentazione. Il nostro è un lavoro di un gruppo che ha la fortuna di avere a disposizione una piattaforma vaccinale testata su malattie correlate. Per questa ragione siamo avanti rispetto ad altri. Stanno emergendo piattaforme nuove, affascinanti, che senz’altro saranno utili per aiutare nella riduzione dei costi del vaccino e nella distribuzione, ma credo che il primo vaccino sarà qualcosa già testato.

La vostra sperimentazione coinvolgerà 500 volontari. Che fisionomia avrà questo target e come funzionerà la somministrazione?
A fine aprile partiremo con la sperimentazione su 500 volontari, compresi in una fascia di età che va dai 18 ai 55 anni di età, in buona salute della zona e di tutte le etnie e generi. I 500 volontari iniziali saranno diviso in due gruppi, a uno dei quali sarà somministrato il vaccino placebo che non stimola risposte. Se il vaccino si dimostra sicuro come ci aspettiamo, allargheremo la fase di trial a 5000 volontari per testarne l’efficacia su un numero più ampio di individui.
A un gruppo ristretto di dieci persone saranno somministrate due dosi di vaccino in due volte per verificare se ci saranno risposte più forti e durature. Se i risultati saranno in termini di sicurezza positivi come ci aspettiamo, procederemo su 5.000 volontari il prima possibile.

Non esiste la possibilità che il virus possa sfuggire e si diffonda nel suo ateneo nel mentre lo studiate? Come ci si protegge?
Nel laboratorio non manipoliamo il virus, non ci serve averlo per preparare il vaccino ma in ogni caso non siamo nemmeno noi del tutto al sicuro dalla probabilità che “entri” da fuori. Per questo adottiamo ogni forma di misura di sicurezza, organizzando turni di lavoro in presenza, sospendendo i progetti non dedicati al Covid19 e non creando mai sovraffollamento. Quando arriveremo alla fase di trial le precauzioni dovranno necessariamente essere incrementate perché avremo bisogno di aumentare il numero del personale per accelerare i tempi tenuto conto che saranno 500 i volontari da vaccinare.

Chi finanzia questa ricerca scientifica?
Utilizziamo fondi pubblici di Enti che si dedicano a dare finanziare la ricerca.

La parola fine alla pandemia – tutti concordano – sarà posta solo dalla scoperta del vaccino. Intanto – solo per citare due esempi – l’Aifa ha autorizzato uno studio con l’enoxaparina in 14 centri italiani, così come sta dando buoni risultati l’utilizzo del Tocilizumab sperimentato dall’Ospedale Cotugno di Napoli, per volontà di Paolo Ascierto. Il nostro Paese ha, secondo lei, avuto il giusto approccio scientifico all’emergenza?
Dal punto di vista scientifico l’Italia sta dando una grande prova di tenuta. Nello specifico ammirevole è l’impegno di medici, infermieri e lavoratori essenziali. Sono loro a fare ogni giorno il miracolo, affrontando e resistendo a questa brutta situazione.
Personalmente però non mi è chiaro quali siano i criteri che spingono l’Aifa ad autorizzare alcune sperimentazioni di farmaci piuttosto che altre. Senz’altro ci saranno validi motivi ma al momento mi sfugge il pattern che guida le decisioni.

Nel frattempo il virus non accenna a fermarsi. Un recente studio mostra come stiano emergendo nuove varianti mutate del Covid19 in Europa e Nord America più resistenti. Come si vince questa che sembra una corsa globale contro il tempo?
Per ora la strategia più efficace cui possiamo fare affidamento è l’isolamento. Il virus si sposta attraverso l’uomo, quindi può essere virulento quanto vuole, ma se la gente sta a casa, non va da nessuna parte. L’importante dal punto di vista del vaccino è che non muti nelle regioni riconosciute e impegnate dal vaccino. È fondamentale che non cambi nella proteina Spike, che è la chiave di ingresso del virus nella cellula umana. Al momento nessuna mutazione e questa è decisamente una buona notizia.

Un’ultima domanda: come siamo arrivati a decentrare così tanto la ricerca e l’innovazione nel nostro Paese e perché? Crede che la lezione Coronavirus basterà a riaccreditare la scienza e i ricercatori in Italia?
Gli scienziati italiani godono di grande credito all’estero. La nostra preparazione accademica e scientifica è riconosciuta come solida.
Anche la ricerca produce risultati importanti apprezzati anche fuori dell’Italia.
Il nodo non credo sia neanche la mancanza di fondi o una “cattiva” distribuzione degli stessi. Ciascun Paese ha i suoi punti di forza e debolezza e di certo il nostro non è messo peggio di molti altri, sebbene si possa migliorare.

Su di un aspetto però credo si debba insistere e investire di più: sull’internazionalità. Quando ero all’Università eravamo tutti bianchi e tutti italiani e questa mancanza di scambio con culture diverse credo penalizzi. Sono anni molto formativi anche al di fuori delle discipline e delle lezioni accademiche. La mobilità internazionale è un valore aggiunto fondamentale, oggi ricercato da tutti gli atenei del mondo perché capace di creare quella società della conoscenza determinante per lo sviluppo sociale, culturale ed economico di qualsiasi Paese.

La mia richiesta all’Italia è di porre più attenzione nell’attrarre ricercatori dall’estero anche perché la vita in Italia è bellissima. Siamo e saremo ancora il Belpaese.