Bistoncini: «Sono i cattivi lobbisti a non volere la trasparenza»

La categoria, come altre, è fatta di professionisti seri e meno seri. La mancata regolamentazione è responsabilità anche di quella politica che non ammette che le sue scelte sono spesso l’esito di una dialettica con portatori di interessi particolari

 

Dottor Bistoncini, nonostante un profondo vuoto normativo è possibile, ad oggi, nel nostro Paese ricostruire con certezza la fisionomia del lobbista e chiarire in quali attività è impegnato?
L’attività di lobby, pur non essendo riconosciuta dal nostro ordinamento giuridico attraverso una regolamentazione normativa chiara e univoca, è riconosciuta di fatto come elemento importante nell’ambito del procedimento legislativo. La professione del lobbista, così come si è sviluppata negli ultimi anni, non risente infatti della mancanza di una normativa perché sostanzialmente è un’attività di rappresentanza politico/istituzionale di interessi sempre esistita in tutti i Paesi, mediante la quale organizzazioni, gruppi e/o professionisti, provano a farsi ascoltare e a incidere, legittimamente, sulle istituzioni, al fine di influenzare il processo decisionale a proprio vantaggio. Vero è, però, che l’assenza di una normativa rallenta e limita di molto la trasparenza dei processi decisionali stessi.

Nel nostro Paese, in tema di lobby, infatti il quadro normativo è molto disomogeneo. La Camera, ad esempio, possiede un registro pubblico dei lobbisti, che ne norma l’accesso alle stanze di Montecitorio, mentre il Senato ne è privo. Se invece finalmente si arrivasse a una legge armonica ed efficace sulla rappresentanza di interessi nel suo complesso, quali ne sarebbero i punti fondamentali?
In primo luogo andrebbe senz’altro istituito un registro, con l’elenco consultabile pubblicamente di quanti svolgono attività di lobbying, in cui venga anche specificato su quali temi si sta portando avanti la propria attività di portatori di interessi e presso quali istituzioni. Andrebbero poi evidenziate le risorse impiegate, sia fisiche, sia economiche, sulla falsariga di quanto avviene già in America ed Europa. Infine, dovrebbe essere stabilito e indicato con certezza un chiaro sistema sanzionatorio ispirato al principio di gradualità, con una procedura basata sul contradditorio, che contempli la sospensione dalle attività e, nei casi più gravi, l’espulsione dal registro stesso. Il registro inoltre – onde evitare il problema attuale della frammentazione – dovrebbe essere unico, integrato e obbligatorio.

Ma perché in Italia non si è riuscito ancora a regolamentare le lobby? Eppure ne beneficerebbe il sistema politico, o no?
Spesso sono stati gli stessi lobbisti a non premere perché si facesse chiarezza sulla loro professione, forse con il timore che l’iscrizione a un registro finisse con il ghettizzare e demonizzare ancora di più il lavoro di una intera categoria che è fatta – come altre – di persone serie e meno serie. Anzi, per dirla meglio, forse sono i cattivi lobbisti a non volere maggiore trasparenza. La mancata regolamentazione è poi senz’altro imputabile a un fattore culturale: è la stessa politica, spesso, a non voler far “emergere” il fenomeno perché accertarlo equivale ad ammettere che in merito a certe scelte si ascoltano (o non si tengono in conto) gli interessi di una parte, che le decisioni sono l’esito di una dialettica. Significherebbe ammettere la finitezza della politica, che ha bisogno delle informazioni tecniche dei gruppi di interesse per decidere. Dire che non si ascolta l’interesse particolare perché si persegue l’interesse generale è una grande mistificazione della politica.

Restando in tema di difesa di interessi di parte, la riforma della class action è legge. Cosa ne pensa?
Ritengo che l’azione di classe, importata dagli Stati Uniti, sia idealmente uno strumento capace di rendere giustizia ai consumatori caduti vittime di truffe, raggiri o inadempimenti ma, trattandosi di un istituto giuridico estraneo al nostro ordinamento e alla nostra cultura, la traduzione concreta in fatti potrebbe essere complicata. Spesso finiamo, infatti, come Paese per abbracciare esperienze straniere in ritardo, caricandole in più di eccessivo zelo e accanimento.

Revolving doors: cosa ne pensa? Vietare questo costume non solo italiano potrebbe incidere in positivo sul contrasto della corruzione?
D’accordissimo nel prevedere per legge un periodo di sospensione dall’assunzione di ruoli di rappresentanza pubblica di due o tre anni se si viene dal privato e viceversa. È una questione aperta da tempo che però andrebbe regolata al fine di non innescare conflitti di interesse o di facilitare condotte improprie.