Assemblea Pubblica 2013, Maccauro lancia il “Salerno Bond”

MAURO MACCAUROPubblichiamo il testo integrale dell’intervento del Presidente di Confindustria Salerno Mauro Maccauro all’Assemblea Pubblica tenutasi il 12 novembre al Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno e dedicata alle forme di finanza alternativa al credito bancario e all’attrazione degli investimenti esteri perchè se un territorio vuole tornare a crescere non può che ripartire da se stesso.
   
Autorità, colleghi imprenditori, amici,
 
ci ritroviamo qui, al teatro Verdi, per il secondo anno. Revisione della spesa e
riordino degli enti locali furono i temi che affrontammo la volta scorsa e che,
nostro malgrado, risultano ancora essere questioni non risolte.
 
In quell’occasione si ritrovò nel nostro Massimo cittadino – di recente inserito nel
novero dei teatri di tradizione – l’intera classe dirigente di questo territorio.
Ciascuno per la propria parte assunse degli impegni.
 
Alcuni sono stati mantenuti, altri disattesi, ma di certo, quel giorno, fu utile a farci
ritrovare quel senso forte di comunità che ci ha consentito di affrontare altri mesi
difficili con la giusta determinazione.
 
Tra poche settimane ci lasceremo alle spalle un anno che ha migliorato di poco il
suo PIL – comunque sempre negativo – rispetto a quello precedente.
 
Guardiamo, pertanto, al 2014 con moderato ottimismo perché la ripresa per
Bruxelles sarà comunque modesta (+0,7%) mentre per il Governo italiano più
incoraggiante (+1,1%). Restiamo consapevoli, comunque, che la distanza dal periodo
pre-crisi (circa 10 punti di PIL da recuperare) è ancora percepita come incolmabile.
Diverrebbe, però, perfino insormontabile se si concretizzasse una nuova ondata
di instabilità parlamentare.
 
 
Il ricorso alle urne, senza una seria legge elettorale – che speriamo qualcuno abbia
davvero in animo di approvare – quasi certamente non restituirebbe una
maggioranza ben definita, ma avrebbe la sola responsabilità di riportarci al “via”
di un gioco dell’oca che fa solo male al Paese.
 
Oggi il rapporto deficit/Pil rispetta i limiti europei non sforando il tetto del 3%,
vincolo che il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha di recente bollato
come «molto impegnativo» perché mina alla base – irrigidendola non poco – la
possibilità di fare investimenti.
 
Lo sanno bene a Bruxelles però, e lo sappiamo bene anche in Italia, che la nostra debolezza non dipende solo dalla tenuta dei conti. Tutt’altro.
 
Servono occupazione, competitività e una ripresa che sia solida e credibile.
 
Ora è necessario porre mano, senza indugio, alle riforme strutturali per
agganciarci ai lievi segnali di rilancio che si intravedono. Costo dell’energia,
burocrazia morosa e supponente, elevato carico fiscale per lavoratori e imprese,
incertezza e lentezza della giustizia civile e instabilità politica: sono queste – non ci
stancheremo mai di ripeterlo – le leve su cui bisogna agire con fermezza.
Questi punti sono esogeni alle responsabilità dirette dell’impresa e sono, invece,
endogeni ad una seria attività dei diversi livelli istituzionali che ci governano.
 
A chi, a vario titolo, vuole tirarci nel vortice delle responsabilità della situazione
in cui versa il nostro sistema socio-economico, rispondiamo che quanti evadono le tasse, fiancheggiano la criminalità organizzata o utilizzano
impropriamente risorse pubbliche, non possono essere ritenuti imprenditori.
Coloro che invece innovano, creano vero valore aggiunto, hanno corrette
relazioni sindacali, diversificano e ampliano le proprie attività nel rispetto delle
regole, possono vantarsi con orgoglio di essere definiti uomini d’impresa.
 
Oggi, in questa imponente cornice, rimarchiamo con vigore questa differenza
e con fierezza rivendichiamo il nostro ruolo di capitani di azienda, capaci di aprire
nuovi mercati, innovare, ma soprattutto in grado di assumerci delle responsabilità,
consapevoli che la nostra attività lavorativa è tutt’altro che esente da rischi.
In questo contesto, da uomini di associazione, ci siamo incamminati, da tempo, in
un’azione di proposizione autonoma e apartitica, affiancando ad un’azione
sindacale d’impresa una di innovata rappresentanza, orientata alla costruzione di
capitale sociale e di buone pratiche civiche, economiche e produttive.
 
Questo è il ruolo che i corpi intermedi devono assumersi. Questa la promessa che
vogliamo mantenere.
 
Siamo, ormai, consapevoli che un territorio che vuole crescere non può che
ripartire da se stesso. É necessario un cambio culturale che si tramuti in un
cambio di passo. É su questo terreno che si fonda la territorialità come valore
competitivo, quale valore caratterizzante le nostre produzioni, una forte 
coscienza di luogo in cui intendiamo riconoscerci e per la quale ci batteremo a
viso aperto, senza compromessi al ribasso.
 
Dobbiamo lavorare, costantemente, alla messa a punto di un sistema di rete
territoriale che sintetizzi le competenze della rappresentanza imprenditoriale, del
sistema bancario e della buona amministrazione per dare al territorio – partendo
dal territorio – gli elementi necessari per avviare un processo di crescita virtuosa.
 
L’attenzione deve essere quindi rivolta agli strumenti di finanza alternativa che
consentano al sistema economico locale di autofinanziarsi, riattivando così i
necessari flussi di liquidità indispensabili per le imprese.
 
Contemporaneamente, dobbiamo guardare con attenzione al progetto
“Destinazione Italia”, presentato dal Governo lo scorso settembre, e
riposizionare Salerno e la sua provincia sul mercato degli investitori esteri.
Si tratta di creare un modello innovativo che metta a fattor comune le eccellenze
del territorio, sia in termini di offerta turistica e culturale, sia di tessuto
imprenditoriale sano e dinamico.
 
È da questo obiettivo ambizioso che questa mattina vogliamo ripartire,
confrontandoci con gli autorevoli relatori che hanno accolto il nostro invito,
consapevoli che Salerno ha i “titoli” per cogliere appieno questa opportunità.
Spesso sentiamo dire che in tempi di crisi è necessario investire.
 
Nulla di più vero, ma quando per un numero sempre più crescente di aziende il
mancato pagamento delle imposte diventa un canale alternativo di
finanziamento, vuol dire che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe.
 
Quando, poi, come ci ricordano le testimonianze di qualche tribunale, per molti
imprenditori è più conveniente la multa per i tributi non corrisposti che il tasso
d’interesse applicato dalla banca ai loro finanziamenti, allora davvero si è giunti
ad un punto di non ritorno.
 
Una seria politica industriale ha il credito tra le sue priorità.
Senza credito – viene da sé – non c’è ripresa economica. Lo ha ricordato poche settimane fa il Presidente della Repubblica – in occasione della giornata mondiale del risparmio – quando ha sollecitato comportamenti responsabili da parte delle banche nell’esercitare un ruolo che può essere cruciale in questi mesi in cui l’Italia scommette sull’aggancio della ripresa.
 
Diciamolo con franchezza: i crediti spazzatura che talune banche hanno nei loro
bilanci, a causa di connubi perversi con il mondo della politica e di quegli pseudo
imprenditori/finanzieri che hanno fatto della leva del debito e della rendita le sole
tecniche del proprio successo, non possono ora gravare sui tanti piccoli e medi
imprenditori onesti che, invece, in questi anni hanno ipotecato anche la vita, pur di
onorare i propri impegni.
 
L’offerta di credito bancario, dunque, è destinata a contrarsi negli anni a venire,
sia per consentire alle banche di ricostruire i propri bilanci e ridurre la leva
finanziaria, sia perché con le regole di Basilea il rischio che gli istituti di credito
assumono pesa molto sul loro capitale.
 
Lo ha ribadito bene nei giorni scorsi anche il Direttore Generale di Bankitalia,
Salvatore Rossi, quando ha invitato le banche ad aumentare la loro capacità di
fare “una intelligente selezione del credito e la struttura finanziaria italiana ad
essere meno dipendente dal credito bancario”.
 
Stante così la situazione, se le imprese vogliono tornare a crescere, in presenza
di vincoli sul credito bancario, è necessario ora più che mai sviluppare con
decisione le fonti alternative di accesso ai capitali.
 
Non è una strada semplice, ma è l’unica percorribile.
 
Da un lato, quindi, il rischio bancario deve essere assunto in gran parte dal
pubblico – attraverso il potenziamento dei fondi di garanzia – e dall’altro bisogna
sviluppare con forza le fonti alternative di accesso ai capitali, oltre a rafforzare il
patrimonio aziendale, presupposto ineludibile per poter tornare a parlare di
competitività.
 
Nuovi percorsi per raccogliere capitali sono stati inaugurati con il Decreto
Sviluppo varato dal Governo Monti che ha dato vita ai cosiddetti “mini bond”, uno strumento che dà la possibilità anche alle
aziende non quotate di emettere prestiti obbligazionari sul mercato.
 
Questa è certamente una possibilità apprezzabile, ma se pensiamo, che – oltre ad una serie di condizioni tecniche cui bisogna adeguarsi – le aziende che vogliono
emettere un mini bond, e quindi attrarre l’interesse degli investitori istituzionali, devono avere un margine operativo lordo mediamente compreso tra i 50 e i 100
milioni di euro, allora comprendiamo bene che questo strumento potrà aiutare medie aziende a finanziarsi, ma di certo non potrà mai essere risolutivo per le
tante PMI del Mezzogiorno che per lo più non hanno dimensioni e organizzazione aziendale tali da gestire questa forma di credito alternativo.
 
Crediamo, piuttosto, che il Governo debba intervenire per la creazione di microbond
semplificando così le procedure per la loro emissione e rendendoli accessibili anche ad un tessuto di imprese medio piccole.
La strada, comunque, è ormai tracciata.
 
Ci stiamo pertanto avviando verso un sistema finanziario nuovo di credito
alternativo, ma consentiteci di esprimere qualche perplessità sul costo di queste
operazioni, non indifferente rispetto al normale canale del credito bancario.
 
È un tema, questo, non di secondaria importanza, sul quale sarebbe opportuno riflettere.
 
Un altro strumento per raccogliere capitale per le PMI è certamente il private equity.
 
Per un decennio si è registrata una graduale crescita dei fondi raccolti dalle
società investitrici e dell’ammontare investito in imprese italiane. Poi con la crisi,
nel 2009, si è avuta una brusca flessione del mercato.
 
Tuttavia nel 2012, i nuovi investimenti di private equity hanno riguardato
per l’83% le PMI, quota in crescita del 5% rispetto a cinque anni prima. Come a dire
che la crisi ha dato maggiore contezza ai nostri imprenditori che, per continuare a
stare sul mercato, era necessario aprire il proprio capitale a nuovi investitori.
Non è un caso, dunque, se negli ultimi mesi più di un imprenditore ci ha
prospettato di voler intraprendere questa strada, talvolta incentivato da un
passaggio generazionale in corso, manifestando la volontà di entrare in contatto
con un fondo.
 
Proprio per sostenere tale mercato nel 2010 è stato costituito il Fondo Italiano di
Investimento, che nel 2012 è stato responsabile di oltre metà degli investimenti di
private equity realizzati in Italia, in imprese con fatturato compreso tra 10 e 250
milioni di euro.
 
A livello locale, poi, nella Finanziaria 2013 la Regione Campania ha previsto la
costituzione di un fondo per il sostegno alle imprese in private equity denominato
“Fondo di sviluppo per le imprese” che potrà esercitare la possibilità di entrare
nel capitale sociale delle aziende fino al 49% e per un importo massimo di euro
500.000.
 
Valutiamo più che positivamente questo strumento ma – nel mentre sollecitiamo la
pubblicazione delle Linee Guida per renderlo immediatamente operativo –
chiediamo che la dotazione dello stesso, per aver un senso compiuto, sia
maggiormente cospicua e che si possa elevare il tetto della partecipazione ad
almeno 1.000.000 euro.
 
Anzi, rilanciamo con una nostra proposta aggiuntiva, mutuando un esempio ben
riuscito in un’altra area del Paese: la Regione Trentino Alto Adige sul bilancio 2013
ha appostato uno stanziamento di 500 milioni euro per concorrere alla
promozione e al sostegno di fondi che perseguano lo sviluppo del territorio. Le
Regioni Friuli Venezia Giulia e Veneto, invece, hanno costituito un’unica Sgr con
l’obiettivo, tra gli altri, di supportare le aziende con un fatturato compreso tra 10
e 100 milioni.
 
Sarebbe possibile – chiediamo al Governatore Caldoro – immaginare una operazione
equivalente per i nostri territori ricercando la collaborazione,
per esempio, della Regione Puglia o della Basilicata?
 
Forse varrebbe la pena quanto meno pensarci.
 
Anche per quanto concerne le iniziative di accelerazione della spesa del POR FESR
Campania 2007/2013 apprezziamo il fatto che sia stato potenziato il Fondo di
garanzia e creato un Fondo Regionale per lo Sviluppo a favore delle PMI che
contempla quasi tutti gli strumenti sollecitati dal sistema confindustriale, ma è,
anche in questo caso, altrettanto evidente che la dotazione finanziaria dovrebbe
essere adeguata, incrementandola.
 
D’altro canto, trattandosi per l’appunto dell’accelerazione della spesa dei fondi
residui 2007/2013, ci aspettiamo che tali capitoli, congiuntamente ad un credito
d’imposta per gli investimenti, possano essere il futuro fiore all’occhiello della
strategia del riparto dei fondi della programmazione 2014/2020 per ridare
definitivamente centralità alla politica industriale di questa regione.
 
Un ruolo strategico poi nell’ambito della raccolta dei capitali potrebbe svolgerlo
la Camera di Commercio.
 
L’Ente Camerale dovrà impiegare circa euro 8 milioni a valere sul budget per l’anno venturo.
Salvaguardando poche, ma qualificate iniziative checaratterizzano i singoli comparti, sarebbe utile destinare più risorse sul capitolo del credito,
a vantaggio dei Confidi che operano in questa provincia.
 
Un plafond complessivo di almeno 1,5 milioni di euro darebbe la possibilità ai Confidi
di garantire affidamenti per 30 milioni di euro. Tante nostre imprese, al di
là del settore di appartenenza, ne trarrebbero di certo un considerevole vantaggio.
 
È un periodo di crisi quello che viviamo – come negarlo – ma anche di grande fermento.
 
Un indice significativo di dinamismo è dato dai tanti spin off che stanno nascendo in seno ai laboratori delle Università.
Molti di essi possono, anzi devono, essere accompagnati a diventare vere e proprie start up,
capaci di immettersi in competizione sul mercato e di supportare le tante filiere produttive presenti sul
nostro territorio.
 
A Salerno, il premio di matrice confindustriale “Best Practices” – che a giugno raggiungerà l’ottava edizione – va nella direzione della grande sensibilità verso
tutte le aziende innovative, specie le start up.
 
Anche in ragione di questa iniziativa, con interesse, stiamo seguendo il regolamento in materia
di raccolta di capitali di rischio da parte di start upinnovative tramite portali on line e, nel contempo,
stiamo avviando rapporti di sinergia con qualificate SIM di livello nazionale al fine di render quanto più nota,
diffusa ed efficace la tecnica del crowdfunding.
 
Pure in questo contesto, un capitolo ad hoc del bilancio camerale per esempio di
500mila euro – con la collaborazione di uno o più Confidi di riferimento – potrebbe
sviluppare affidamenti complessivi per circa 10 milioni.
 
Si tratterebbe di più di una boccata di ossigeno per l’avvio di start up che, con
interventi medi di 100mila euro, aiuterebbe circa 100 nuove attività.
Anche questa tipologia di azienda esercita il suo appeal verso investitori
istituzionali – i cosiddetti business angels -.
 
Utile, a tal proposito, sarebbe impegnarsi per costituire un comitato composto da
soggetti istituzionali, sistema camerale, bancario e associazioni categoriali che
possa proporsi come facilitatore di tante start up nel trovare business angels
interessati ad entrare nel loro capitale.
 
Una volta tanto avremmo costituito un comitato “per” qualcosa e non “contro”
qualcosa o qualcuno.
 
Noi siamo disponibili, da subito, a fare la nostra parte nella ricerca dei capitali
perduti.
Lo dimostra il lavoro svolto in questi mesi per individuare, come sistema
confindustriale, soluzioni al credito alternativo alle imprese che fossero tagliate
su misura delle reali esigenze delle nostre realtà produttive.
 
É con estrema soddisfazione, infatti, che oggi presentiamo il nostro bond di
territorio che abbiamo voluto chiamare “Salerno bond”, nato dal sodalizio con
Banca Sella.
 
Con la firma dell’accordo di questa mattina, Banca Sella provvede all’emissione di
un prestito obbligazionario subordinato a tasso fisso di 7,5 milioni di euro che
dovrà essere collocato entro tre mesi.
 
Il taglio minimo è di 1000 euro, sottoscrivibile da imprese e privati cittadini che sceglieranno
di coniugare l’esigenza di un investimento ben remunerato con la possibilità di contribuire a dare liquidità alle
aziende iscritte al nostro Sistema associativo verso cui sarà impiegata questa raccolta,
utile sia per finanziare il circolante, sia gli investimenti, a condizioni economiche
interessanti e ancor più vantaggiose in caso di assistenza di un Confidi.
 
Nostro partner in questa iniziativa sarà il Gafi Sud, unico Confidi 107 della nostra
regione. Banca Sella, infine, metterà a disposizione delle imprese, fin da subito, un
ulteriore plafond di euro 3.5 milioni.
 
Un bond di territorio, dunque, dal valore complessivo di 11 milioni di euro, una
risposta concreta da parte del nostro sistema d’impresa a questi venti di crisi, nata
dalla consapevolezza matura che un territorio può crescere solo se riparte da se
stesso.
 
Territorio però non è una parola vuota, non è solo uno spazio o un contenitore
fisico. Territorio è molto di più, è cultura, intesa nel suo significato più ampio, che
ribolle da decine, centinaia, di anni.
 
Territorio è un insieme di storie, tradizioni, sapori da difendere oggi più che mai,
se solo pensiamo, ad esempio, alle deplorevoli vicende che interessano la Terra
dei Fuochi.
 
Noi imprese sane non ci stiamo a voltare lo sguardo altrove, aspettando che passi
la buriana.
 
Non ci stiamo a confinarci nel Triangolo delle Bermuda soffocante che il malaffare
ci ha costruito intorno, né ad arrenderci all’inganno della strumentalizzazione e
del silenzio.
 
La politica, e con essa le istituzioni, hanno il dovere di dare risposte, di farlo
tempestivamente, con coraggio e onestà intellettuale perché siamo tutti
coinvolti.
 
Andando oltre l’indignazione e lo sconcerto, come siamo abituati, vorremmo che
da subito si mettesse mano a soluzioni concrete e, soprattutto, che dopo i delitti
ci fossero gli opportuni castighi.
 
Il Ministro per l’Ambiente Andrea Orlando ha dichiarato che tra pochi giorni sarà elaborato
un testo di riforma complessiva dei reati contro l’ambiente teso a correggere l’anomalia
tutta italiana a causa della quale – nel nostro ordinamento – non è ancora definita in modo compiuto la
fattispecie del delitto ambientale, cosicché, talvolta, «piccole forme di violazione
formale vengono sanzionate nello stesso modo in cui vengono sanzionate invece
attività che producono danni permanenti per il territorio, per l’economia, per la
salute umana».
 
Bene, aspettiamo con fiducia questo testo di riforma.
 
Vanno, poi, mappati siti e terreni perché si possano tracciare i confini delle aree
inquinate, distinguendole da quelle incontaminate, per tutelare la salute dei
cittadini e difendere le moltissime imprese di eccellenza che operano sul nostro
territorio.
 
E vorremmo che alta restasse l’attenzione anche quando i riflettori sulla vicenda
si spegneranno e più nessuno avrà interesse a speculare su di essa, tranne
ancora una volta il malaffare che, nell’ombra, potrebbe intravedere nelle opere
di bonifica un’altra ghiotta occasione di business.
 
Il nostro territorio con il suo bagaglio di conoscenze ed eredità deve essere
arricchito, non depredato ancora. Nonostante le difficoltà storiche e contingenti,
noi non ci stiamo ad abbandonare il campo.
 
Piuttosto vogliamo comporre, pezzo dopo pezzo, un più denso e strategico
disegno, preparandoci anche per un’altra avvincente sfida: quella dell’attrazione di
nuovi investitori sul nostro territorio.
 
A pensare alla desertificazione industriale e sociale cui stiamo assistendo, agli
storici gruppi che abbandonano le nostre aree A.S.I., verrebbe solo da piombare
nel più cupo e avvilente sconforto.
 
Noi imprenditori, però, in questa fase di declino e di grandi cambiamenti nei partiti
politici italiani ci iscriviamo e ci candidiamo alla guida del partito della resilienza.
La resilienza, secondo i principi della scienza dei metalli, indica la capacità di un
metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate e, più in generale, la
capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi.
 
La natura, dunque, ci ha fatto resilienti, con l’attitudine cioè ad affrontare le
avversità della vita provando a superarle.
 
Come i metalli, quindi, possiamo piegarci ma non ci spezzeremo.
 
Chiediamo anche a tutta la comunità di questo territorio di essere resiliente perché
dovrà essere in condizione di “allargare e allungare” lo sguardo in maniera
“intelligente” per affrontare le sfide cruciali che ci attendono.
 
Per portare nuova linfa sul territorio, dobbiamo, con l’aiuto delle istituzioni locali
candidarci ad avere un ruolo da protagonisti nell’ambito del piano presentato dal
Governo denominato “Destinazione Italia”.
 
La Regione Campania ha istituito – in attuazione della normativa nazionale – il
Desk per valorizzare le opportunità di investimento nella nostra
regione, operando in raccordo con il desk Italia e con le due agenzie ICE e
Invitalia.
 
Chiediamo che, a livello regionale, venga avviata al più presto una task force per
l’attrazione degli investimenti, operativa sui temi più rilevanti (fiscalità,
semplificazione amministrativa, infrastrutture, occupazione) per preparare al
meglio la localizzazione di possibili nuovi investimenti anche provenienti
dall’estero.
 
Al Governo, invece, chiediamo di non sottovalutare – per questo come per altri
provvedimenti di legge – la variabile tempo e le sue incidenze.
 
Sappiamo bene, e a nostre spese, che la decisione di una politica economica di
per sé diventa poca cosa dal momento che troppo spesso, in Italia, dall’annuncio
di un intervento normativo alla sua concreta attuazione intercorrono distanze
temporali siderali, in cui può succedere tutto e il contrario di tutto.
 
Proprio in ragione di questa consapevolezza – per non fare mera e improduttiva
astrazione, ma per “farci i conti” davvero – esortiamo il Governo a lavorare
alacremente ai decreti attuativi relativi al Piano Destinazione Italia, oltre che a
quelli previsti per avviare gli strumenti tracciati nel Decreto del Fare.
 
In dote portiamo la nostra esperienza. Non ci presentiamo, infatti, a mani
vuote. Di azioni ne abbiamo portate a compimento!
 
In particolare, sul fronte del fisco abbiamo sancito nelle scorse settimane, su
nostra proposta, un importante accordo con l’Agenzia delle Entrate regionale
che segue ad uno precedente con Equitalia affinchè gli adempimenti fiscali non
diventino ostacolo agli investimenti e terreno di scontro in qualche commissione
tributaria, ma creino le condizioni per un civile e corretto rapporto tra
l’amministrazione finanziaria e il mondo dell’impresa.
 
Da più di un anno, poi, abbiamo sottoscritto un’intesa con le forze sindacali volta
a rivedere le regole del mercato del lavoro rendendole le più attraenti possibili in
presenza di concrete opportunità di investimento in nuovi insediamenti
industriali.
 
Abbiamo dato il nostro fondamentale contributo in fase di approvazione di
regolamento per insediamenti produttivi in zone ASI, favorendo un più agevole
percorso per arrivare in maniera celere all’ottenimento dei nulla osta; nell’ambito
della conoscenza, dei saperi e della ricerca vantiamo un Campus in continua
crescita, nonostante le difficoltà e i ripetuti tagli delle risorse destinate alle
università; possiamo mettere in campo, usando le leve della cultura, una
diplomazia dell’attrazione di tutto rispetto, con in testa il patron del Giffoni
Experience – Claudio Gubitosi – che candidiamo, da subito, a primo ambasciatore
nel mondo della nostra regione.
 
Questi che per Destinazione Italia sono alcuni dei 50 punti su cui si fonda il piano,
sono per noi già delle best practices che si uniscono alle naturali bellezze
paesaggistiche, ai numerosi siti di interesse storico-archeologico, ad importanti
snodi ferroviari e a una fitta rete autostradale.
 
E ancora, nel nostro carnet ci pregiamo di un porto che – grazie alla sua posizione
baricentrica nel Mediterraneo – assume e merita sul campo un importante ruolo
fondamentale nell’economia marittima italiana, assolvendo un ruolo strategico al
servizio del sistema industriale e commerciale dell’area campana e non solo.
 
Senza tralasciare lo sviluppo del comparto della crocieristica che riceverà un
impulso ancora più forte con il completamento della Stazione Marittima.
Il sogno nel cassetto – vero – resta il decollo mancato dell’aeroporto. Anche
rispetto a questo nodo gordiano, non smettiamo di credere che in un tempo non
troppo lontano, il sistema aeroportuale campano potrà contare a pieno titolo
anche sul Costa d’Amalfi. Lo merita il territorio e lo meritano i tanti imprenditori
che attraverso i loro diritti camerali stanno supportando questa importante
infrastruttura.
 
Questi punti a favore non vogliono valere da spot pubblicitario, ma essere più
naturalmente la testimonianza che Salerno ha i titoli giusti per agganciarsi a
questa partita lanciata dal Governo per l’attrazione degli investimenti.
Tutti questi aspetti positivi su cui il nostro territorio può fare leva, però, sembrano
violentemente dissolversi quando, per esempio, l’a.d. di Indesit dichiara che,
poiché un lavoratore in Italia costa mediamente 24 euro l’ora e in Turchia
solamente 6.5 euro, è comprensibile che l’azienda decida di spostare la
produzione dei prodotti di gamma inferiore fuori dei confini nazionali per non
perdere vantaggi in termini di competitività.
 
È verità anche questa, è l’altra faccia della realtà con cui dobbiamo misurarci.
 
La questione, allora, assume più di una sfaccettatura. È indubbio che in Italia ci
sia, tra gli altri, un problema legato al costo del lavoro, ma il concetto di
competitività non può ridursi solo a questo aspetto.
La partita della competitività va spostata su altri piani, ponendo l’accento sulla
formazione degli addetti, sulla qualità dei servizi post-vendita e dei prodotti.
È su questo campo che dobbiamo giocare. Diversamente, il nostro Paese ha perso
in partenza.
 
Proprio in merito ai prodotti di gamma inferiore e ai settori a basso valore
aggiunto, chi ci governa deve assumersi la responsabilità di decidere se mettere
in campo – o meno – politiche di supporto alla competitività per determinare la
sopravvivenza – o la débâcle definitiva – di questi comparti.
L’azione tesa ad abbassare il prezzo dell’energia elettrica e del gas, per esempio,
dovrebbe riguardare non solo le grandi aziende energivore, ma anche quelle più
piccole e a basso valore aggiunto, che da una “bolletta” più leggera trarrebbero
sicuri benefici.
 
Sarebbe un primo passo ma ancora non riusciamo a compierlo, restando fermi.
La sfida intanto è aperta e noi dobbiamo coglierla. Dobbiamo essere nel
cambiamento.
 
Anche il tema delle acquisizioni da parte di gruppi stranieri deve essere affrontato
in maniera “laica” e pragmatica.
 
Non possiamo accodarci a quanti gridano allo scandalo se in questa fase storica
non abbiamo la possibilità di difendere i cosiddetti “gioielli di famiglia”.
Recriminare le condizioni che hanno determinato tutto ciò e non guardare al
futuro con concretezza, significa non saper reagire alle nuove sfide che il mercato
ci impone. Addirittura – meglio dirselo a viso aperto – per molte PMI accettare il
corteggiamento di imprese straniere potrebbe essere l’unica strada per far fronte
alle esigenze di liquidità.
 
Se un’azienda è forte, ha un proprio know how, una specificità di prodotto o un
radicamento sul territorio è difficile pensare che la stessa possa essere svuotata e
trasferito altrove il suo valore.
 
L’afflusso di capitali esteri deve essere visto, pertanto, come un segnale di
grande vitalità dal momento che è divenuta anacronistica la difesa strenua del
modello italiano in un mercato ormai globale.
 
Il vero scandalo non sono le cessioni, la più grande vergogna è – secondo noi –
vedere una produzione industriale crollata del 20% negli ultimi anni, un Paese
che resta secondo in Europa nel manifatturiero ma che in più di 15o anni non è
riuscito a colmare le distanze tra il nord e il sud e che da tempo immemorabile
non ha un disegno industriale a fare da guida.
 
Ci stiamo condannando inesorabilmente ad essere mediani, eterni gregari senza
provare sul campo una diversa strategia.
 
Questo è il vero scandalo!
 
Stigmatizzando questi processi di apertura e modernità, mostreremmo solo di
non vivere il nostro tempo e la nostra realtà globalizzata.
 
Dovremmo invece fare nostro il discorso che fece Tony Blair alle Trade Unions
verso la metà degli anni ’90: «Noi siamo l’1% della popolazione del pianeta; se
scegliamo di tener fuori dal nostro territorio gli imprenditori stranieri, il risultato, in
tutti i settori in cui non sono i nostri imprenditori a eccellere, sarà quello di privarci
degli imprenditori migliori. Sarebbe un errore gravissimo. Al contrario, se sapremo
attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale, questo si tradurrà non
soltanto nell’afflusso di capitali che porteranno domanda aggiuntiva di lavoro, ma
anche in aumento della produttività del lavoro stesso».
 
La sfida globale si gioca su questo fronte: i Paesi competono tra loro per attrarre
investimenti. L’Italia è in fondo alla classifica. Non possiamo chiudere gli occhi di
fronte alla verità. A questa verità.
 
In condizioni di normalità, un Paese che sa farsi scegliere dagli investitori esteri è
un Paese migliore anche per le imprese nazionali.
 
Che il Governo tracci la strada per rendere più attrattivo il nostro Paese agli
occhi di investitori stranieri è, come detto, a nostro parere condivisibile, ma
dobbiamo pretendere che lo Stato italiano sia tanto disponibile e aperto quanto
irreprensibile e duro in caso di mancato rispetto di accordi ben definiti a
vantaggio della comunità locale dove l’investimento estero viene implementato.
 
Il caso della BTP Tecno di Battipaglia e degli impegni non mantenuti da parte della
multinazionale francese Alcatel grida ancora vendetta.
 
Le mancate commesse promesse in sede contrattuale rischiano di mettere in
ginocchio un solido gruppo industriale italiano, con le logiche conseguenze
negative in termini di occupazione.
Vogliamo fare un appello anche da questo teatro affinchè il Governo intervenga
con determinazione in questa vicenda.
 
Oggi c’è un’Italia che si trincera dietro la falsa retorica della stabilità, dell’unità,
mostrando di non tenere conto che per agevolare lo sviluppo e la tanto invocata
crescita bisogna essere comunità vera, è necessario condividere valori ed
esprimere un progetto di Paese che coinvolga e renda partecipi tutti.
 
Qui, in questa sede, abbiamo provato proprio ad essere comunità, a porci in
prima linea armati di proposte per il rilancio di Salerno e della sua vasta provincia.
Abbiamo scelto di esserci.
 
Ora scegliamo di agire. Scegliamo di assumerci il rischio del futuro. La sfida è
possibile se uniamo forze, risorse e intelligenze, ripartendo con onestà
intellettuale compiti, responsabilità e sacrifici.
 
Tornare a crescere, partendo da Salerno e dalla sua provincia non è una chimera,
un orizzonte irraggiungibile, né tanto meno un’utopia e, se pure lo fosse, come
insegna un grande scrittore sudamericano, Eduardo Galeano, «l’Utopia serve a
questo: a continuare a camminare».
 
Torniamo a camminare, allora.
Anzi, a correre.