Fallimento, il giudice italiano non può dichiararlo in caso di trasferimento effettivo della sede all’estero

Non sussiste la giurisdizione del giudice italiano in merito alla richiesta di fallimento se il trasferimento all’estero della sede sociale é effettivo e ció trova conferma nella residenza all’estero dei soci e dell’amministratore nonché nella possibilità di notificare regolarmente l’istanza di fallimento nel luogo indicato come sede legale all’estero

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la recentissima sentenza numero 3059/2016, pubblicata il 17/02/2016, ha stabilito un principio fondamentale in materia di Giurisdizione del Giudice italiano nel procedimento per la dichiarazione di fallimento. Per comprendere meglio il significato della pronuncia è necessario descrivere brevemente il complessivo iter processuale.
La vicenda tra origine da una pronuncia del Tribunale di Varese che aveva erroneamente dichiarato il fallimento, su istanza della Equitalia Nord Spa e del pubblico ministero, di una società a responsabilità limitata che aveva trasferito la sede legale in Svizzera in data antecedente al deposito del ricorso per dichiarazione di fallimento.

Avverso la sentenza del Tribunale, la società propose reclamo dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano, la quale, accogliendo il reclamo proposto e revocando quindi il fallimento, evidenziò
che il Tribunale, a fronte del difetto di giurisdizione eccepito dalla società resistente, la quale aveva trasferito la sede in Svizzera, aveva erroneamente applicato la regola enunciata dall’art. 9 comma 2  
l. fall. dell’irrilevanza del trasferimento della sede attuato nell’anno antecedente all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, laddove invece doveva essere applicato l’art. 9 comma 5 di tale disposizione,
secondo cui il trasferimento della sede all’estero non esclude la giurisdizione del giudice italiano, solo se avvenuto successivamente al deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 6 l. fall., salvo però che tale trasferimento sia avvenuto in modo fittizio.

Nel caso di specie la Corte d’Appello evidenziò che il Tribunale nel giudizio di primo grado non aveva svolto alcuna indagine concreta al fine di verificare che il trasferimento all’estero della sede sociale fosse stato effettivo.
In particolare, nel caso di specie la società risultava, già prima del suddetto trasferimento, notevolmente indebitata con l’Erario ed esposta quindi al rischio di procedure esecutive e al fallimento.

Al contempo però vi erano una serie di elementi che facevano propendere per ritenere effettivo e non fittizio il trasferimento della sede all’estero e precisamente:
a) la circostanza che il socio unico, nonché legale rappresentante della società risiedesse stabilmente in Chiasso;
b) il fatto che non vi fosse stata alcuna difficoltà nell’effettuare le notifiche nella fase prefallimentare. 

Per tali ragioni la Corte d’Appello accogliendo il reclamo proposto dalla società ha revocato il fallimento in considerazione del difetto di giurisdizione del giudice italiano. Avverso la sentenza della Corte d’appello, il curatore fallimentare ha proposto ricorso in Cassazione.
La Corte di Cassazione ha respinto pertanto il ricorso della curatela, confermando la sentenza della Corte d’Appello che aveva revocato il fallimento evidenziando che secondo un principio giurisprudenziale consolidato sussiste la giurisdizione del giudice italiano con riguardo all’istanza di fallimento presentata nei confronti di società di capitali già costituita in Italia che, dopo il manifestarsi della crisi dell’impresa, abbia trasferito all’estero la sede legale soltanto quando a questo trasferimento non abbia fatto seguito anche il trasferimento dell’effettivo esercizio dell’attività imprenditoriale e del centro dell’attività direttiva e amministrativa della società. In tal caso ai sensi dell’articolo 25 comma 1) della legge 218 del 1995 spetta al giudice del luogo di costituzione della società stabilire, in conformità al proprio ordinamento la sede effettiva della società.

Al contrario nel caso di specie la Corte di Cassazione è giunta a escludere la giurisdizione italiana in quanto, pur essendo la società indebitata in maniera consistente con l’Erario già prima del trasferimento ed esposta ad azioni esecutive, aveva però adeguatamente dimostrato l’effettività del trasferimento della sede operativa della società, ritenuto provato nel caso di specie proprio dalla circostanza che il socio unico e legale rappresentante risiedesse stabilmente all’estero e che alcuna difficoltà vi fosse stata nel notificare gli atti della fase prefallimentare. 
La pronuncia in commento ha così valorizzato il criterio della corrispondenza effettiva del “centro d’interessi”, riconoscibile dai terzi, con la sede legale, così applicando principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità relativi al collegamento, reale e significativo tra chi ha maggiormente operato per la società nello Stato straniero e alla mancanza di difficoltà nel notificare l’istanza di fallimento nel luogo indicato come sede legale.

In una fattispecie diversa infatti la Cassazione (Cfr. Cass. Civ. Ord. Sezioni Unite N. 15880/2011) ha ritenuto dunque fittizio il trasferimento all’estero della società, così superando la presunzione di corrispondenza tra la sede sociale dichiarata e il centro effettivo di interessi della società, ricorrendo i seguenti elementi:
a) cittadinanza italiana e mancanza di significativi collegamenti con il territorio estero da parte dei soci, di chi impersona l’organo amministrativo e dell’impiegata che risultava aver maggiormente operato per la società;
b) difficoltà di notificare l’istanza di fallimento nel luogo indicato come sede della società all’estero;

c) circostanza che la delibera di trasferimento all’estero della sede sociale fosse intervenuta in un momento in cui la situazione di crisi che ha poi determinato il fallimento era già sicuramente percepibile dagli organi sociali.