Jim Morrison e Rimbaud, due miti della gioventù ribelle

jim morrisonOmaggio a due poeti silenziosi, introversi, quasi sempre in soggezione nella trama dell’adolescenza e poi esplosivi, ribelli, insofferenti, aggressivi nella successiva maturità

«Quello che resta lo fondano i poeti», scriveva un grande tedesco di nome Friedrich Holderlin. Tutto quello che nel tempo persiste – sembra dirci il poeta/filosofo – ha qualcosa legato al sogno, al desiderio, alla speranza, alle illusioni (anche quando tutto sembra amarezza conclusiva, dominio della stanchezza, viaggio al termine della luce).

E proprio a due poeti (diversi per stile ed epoca eppure accomunati da una simile inquietudine “generazionale”) sembra legata la “fondazione” del mito della gioventù ribelle.
Parliamo di Arthur Rimbaud (il poeta ottocentesco delle barricate parigine e magistrale innovatore della poesia moderna) e Jim Morrison (il poeta-songwriter americano delle “porte della percezione”).
Infatti proprio nell’American prayer ritroviamo caratteri ed analogie con il maudit francese. Un “dialogo” che ancora oggi è un segno potente e vivo.
Provo a sintetizzare questi ponti di contiguità.

In primo luogo la dichiarata avversione per il sistema autoritario e verso qualsivoglia convenzione sociale.
Un ribellismo costante e sempre in movimento. Per entrambi, il poeta ha un compito ben preciso: diventare veggente! Un percorso verso l’alterazione dei sensi (tra mistica e sciamanesimo, tra droghe e assenzio, tra fuga ed azzeramento) che in diversi casi avvicina i due.
Altro elemento che li unisce e che terribilmente, ancor oggi ce li fa sentire inquieti fratelli maggiori, è la loro indole timida.
Silenziosi, introversi, quasi sempre in soggezione nella trama dell’adolescenza e poi esplosivi, ribelli, insofferenti, aggressivi nella successiva maturità.

È cosa nota che il poeta di Charville fu un autore culto per Jim Morrison. In particolare la “rivelazione” è con “La lettera al veggente” dove il giovane Jim entra nel cuore delle visioni del giovane Arthur «io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia». E tutto questo non poteva non animare Morrison che dell’idea rimbaldiana adorava in particolare la distruzione-amplificazione dei sensi. Altro testo d’innamoramento e amore per il cantante americano fu il saggio di Henry Miller dedicato a Rimbaud “Il tempo degli assassini” dove la teoria di fondo era eleggere la poesia ad assoluto strumento di liberazione. La conquista di un’identità visionaria e concretamente vissuta in prima persona per Morrison è totalmente dentro il corpus poetico di Rimbaud. Il poeta deve essere una sorta di magister e guerriero.
Dove la “parola” è dimensione alchemica, vaticinante e libertaria. Il “poeta è ladro di fuoco” urlava Rimbaud e quest’urlo era completamente dentro Morrison.
La lucidità per un poeta esiste soltanto nella sfida verso il sovrannaturale.
Certo l’uso delle droghe e un largo sconfinamento alcolico acuiscono questo desiderio di visioni estreme, eccedenti, dissolutorie.
E molte canzoni da risveglio tossico (quel “Sunday Morning” che successivamente canteranno i Velvet Underground) sono spesso un richiamo al “risveglio” post-dionisiaco di rimbaldiana memoria e al suo «noi abbiamo fede nel veleno. Sappiamo donare la nostra vita intera a tutti i giorni».

C’è poi il tema della “danza” che ulteriormente avvicina i due. La danza nella “Stagione all’inferno” riecheggia nella danza dei concerti del Re Lucertola.
Morrison era un demone danzante e inarrestabile sul palcoscenico. Era l’artefice di una provocazione che diventava corpo ed energia. Il tutto condito – altro violento tema di amalgama- da un vorace spirito autodistruttivo.
Il finale della loro vita è per alcuni versi simile. Dopo il coro di urla infinite…il silenzio.
Il grado zero e il rinnegare la propria storia poetica per il francese e il “pessimismo illuminato” e silente per l’americano.
Poi il dopo morte è solo mito. Tutto diventa il contrario di tutto.
E la parola maledettismo acquista – grazie a loro – un sapore finanche dolce, soave, bambinesco. Un sapore d’infinita bellezza…