Una riforma mancata. Purtroppo

antonio matontiIl “basso rendimento decisionale” delle Istituzioni è da un lato alimentato e, dall’altro, alimenta la cattiva qualità della classe dirigente, in tutti i campi. L’esito del referendum non ha permesso di cambiare questo stato di cose

La riflessione portata avanti da Confindustria Salerno, in occasione dell’Assemblea annuale dell’Associazione, sul ruolo e sul concetto stesso della classe dirigente, suscita alcune considerazioni rispetto al sistema istituzionale italiano. Considerazioni che, inevitabilmente, si intrecciano con la riforma costituzionale per cui siamo stati chiamati alle urne lo scorso 4 dicembre.

 

1. Classe dirigente e principio di responsabilità

La prima considerazione riguarda il rapporto tra classe dirigente e principio di responsabilità in Italia. Per inquadrarlo, è utile tornare ai “fondamentali”, cioè alle riflessioni maturate già in Assemblea costituente e, successivamente, nei primi anni di applicazione della Costituzione repubblicana. «La Seconda Sottocommissione […] si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo», (Ordine del giorno Perassi, Seconda Sottocommissione Assemblea costituente). «Questo sistema […] è stato strutturalmente predisposto sulla premessa di un contrappeso reciproco di poteri e quindi di un funzionamento complesso, lento e raro, sì come quello di uno stato che non avesse da compiere che pochi e infrequenti atti sia normativi che esecutivi […]» (G. Dossetti, 1951).
Queste parole, che smentiscono la retorica della Costituzione più bella del mondo, dimostrano quanto fossero chiari e acquisiti, già ai costituenti e al pensiero dell’epoca, alcuni limiti intrinseci al nostro sistema istituzionale. Limiti che non tardarono a manifestarsi già nel secondo dopoguerra, determinando soprattutto la sistematica mancata affermazione del principio di maggioranza, associato all’instabilità degli esecutivi. Ebbene, il rispetto del principio di maggioranza è la premessa per far funzionare un altro cardine della democrazia rappresentativa: il principio di responsabilità nelle decisioni. Il cittadino conferisce la propria fiducia al rappresentate politico sapendo che costui, al termine del mandato, dovrà rendergli il conto di quanto realizzato e non. È ciò che accade in Italia? In pochi risponderebbero di sì, ma ancora meno sono quelli che si interrogano su una delle ragioni profonde di questa disfunzione. Quante volte abbiamo ascoltato autorevoli rappresentanti istituzionali affermare che quella riforma economica era sì nel programma di governo, ma che era stato impossibile realizzarla a causa dell’opposizione di una certa forza politica, minoritaria in termini di peso elettorale ma determinante per gli equilibri del governo stesso? Se manca il principio e la “pratica” della responsabilità, manca il presupposto di fondo per la creazione di una classe dirigente degna di questo nome. Si inceppa il funzionamento delle dinamiche democratiche, tanto che le nostre sono state definite come in perenne transizione. Ora, è indiscutibile che la riforma costituzionale, semplificando i processi decisionali e l’articolazione delle competenze, puntasse a rendere effettivo il principio di responsabilità.

2. Classe dirigente e sotto-cultura del veto

Queste considerazioni sono collegate a un’altra anomalia italiana, che è la sotto-cultura del veto, una anomalia alimentata da fragilità dei governi, bizantinismi parlamentari e dalle dupli¬cazioni generate dal Titolo V riformato nel 2001. Una sotto-cultura radicata, ma che ha una genesi istituzionale precisa, che sta proprio nelle scelte ispirate al “raffreddamento” e al bilanciamento fatte all’epoca dell’Assemblea costituente. Scelte nobilissime ma non più attuali. Quelle scelte hanno dato vita a un mo¬dello di democrazia che alcuni definisco¬no “consensuale”, il cui risvolto pratico è che la decisione è corretta, direi quasi “giusta”, solo se incontra un consenso ampio e trasversale.
È questo modello che alimenta la sotto-cultura del veto contribuendo al progressivo impoverimento della capacità decisionale delle Istituzioni e, in una seconda fase storica, all’esplosione della spesa sociale e, quindi, del debito pubblico. Abbiamo bisogno di una classe dirigente che si liberi da questa sotto-cultura, che sappia accettare, in po¬litica come nell’impresa, nelle istituzioni come nella PA, l’idea che si compete, si discute, ma poi si decide e chi risulta in minoranza si rimette alla decisione della maggioranza e non ha la prerogativa o il diritto di ritardare se non bloccare, quella decisione. È questa la logica cui rispondeva il “combinato disposto” dato dalla revisione del Titolo V e dalla nuova configurazione del Senato: un modello ispirato a un regionalismo collaborativo, dove il valore delle autonomie non sta più nella rigida ripartizione di compe¬tenze ma nella possibilità per le Regioni di veicolare le proprie ragioni nel circuito parlamentare di formazione delle deci¬sioni.

3. Classe dirigente e (basso) rendimen¬to decisionale delle Istituzioni

L’accentramento delle decisioni eco¬nomiche, la verticalizzazione e l’euro¬peizzazione non tolgono il fatto che i fondi e le tasse vadano raccolti e che i servizi pubblici vengano erogati. Su questi aspetti, le decisioni a livello statale sono ancora determinanti, anche per la creazione del contesto in cui operano le imprese. Cito solo un caso, quello della Variante di Valico: il solo procedimento autorizzatorio è durato 9 anni, più di 1000 prescrizioni da rispettare e atti sotto ai quali si sono contate più di 40 firme di enti a vario titolo coinvolti. Come si fa a non vedere che un assetto del genere è insostenibile? Ma questo stato di cose è da un lato alimentato e, dall’altro, alimenta la cattiva qualità della classe dirigente, in tutti i campi.
Come possiamo pensare di realizzare, con questo stato di cose, quelle ibrida¬zioni tra competenze diverse, tra pubbli¬co e privato, considerate necessarie per affrontare la complessità del presente? Si pensi solo a quante volte abbiamo ascol¬tato manager di successo prestati alle Istituzioni o alla PA, uscirne, dopo pochi mesi, affermando di non essere riusciti a “toccare palla”. È evidente che la rifor¬ma costituzionale intervenisse sul basso rendimento decisionale delle Istituzioni, con soluzioni orientate semplicemente al pragmatismo.

4. Classe dirigente ed “effettività” dei poteri decisionali

Ma il basso rendimento decisionale del sistema condiziona anche quella che potremmo definire l’effettività dei poteri decisionali. Mi riferisco al fatto che, oggi, i malfunzionamenti del sistema istituzionale “costano” anche in termini di espropriazione dei poteri decisionali: se non decidiamo noi, ci sarà qualcun altro che lo farà al posto nostro.
Processi decisionali troppo complicati e lenti determinano, infatti, lo spiazza¬mento delle Istituzioni democratiche, espropriandole nei fatti a beneficio di entità non rappresentative e non respon¬sabili. Viviamo questo conflitto rispetto all’Europa, che pure è una Istituzione democratica e, seppur con alcuni limiti, rappresentativa. Ma a maggior ragione questo vale rispetto ai grandi player della finanza o delle comunicazioni elettroni¬che. Chiaramente, oltre alle istituzioni, quello stesso rischio di spiazzamento lo vivono le nostre classi dirigenti, che di quelle istituzioni sono espressione e che sono destinate a impoverirsi se il sistema non recupera capacità ed effettività. An¬che a questo serviva quella moderniz¬zazione dei processi, a partire da quello per eccellenza, che è il procedimento legislativo.

5. Classe dirigente e nuove classi politiche

Esiste un intreccio fra le riforme e la trasformazione delle classi dirigenti (al¬meno politiche). Si pensi al superamento del bicameralismo paritario. La raziona¬lità di fondo della riforma, non sappia¬mo quanto consapevolmente percepita, era di redistribuire la dialettica politica. Un Senato privo del ruolo di dare o togliere la fiducia al governo sarebbe diventato, se riempito di un ceto politico adatto al ruolo, una sede di controllo e di dialettica rispetto a: la Camera, per il suo potere di richiamarne le leggi e di formulare proposte su di esse; alcuni organi dello Stato, per i poteri di inter¬vento diretto nelle nomine o indiretto; alcuni ambiti “riservati” alla sua valuta¬zione, come la valutazione delle politiche pubbliche e della produttività della PA. Concludo mutuando le considerazioni di Angelo Panebianco: «l’ostacolo più importante ha forse a che fare con la cul¬tura politica e istituzionale» della classe dirigente politica, da sempre convinta che un parlamentarismo inefficiente, dove vi è pure «una condizione di per¬manente debolezza dei governi a fronte delle assemblee legislative», sia un fatto positivo, mentre dovrebbero essere ben noti, come la dottrina più avvertita da tempo ha segnalato, i danni causati dalla frammentazione politica e da governi deboli e poco autorevoli.