TRUMP, DAZI E WTO: UNA RIFLESSIONE CONTROCORRENTE

Le tariffe del presidente americano riaccendono i riflettori sulle regole del WTO e sui modi per rivitalizzare e rafforzare l’organismo che regola il sistema commerciale globale

 

A dire il vero non avevo intenzione di scrivere un articolo sui dazi. E ancor meno desideravo affrontare l’argomento Donald Trump. Nel primo caso, perché ci sono voci ben più autorevoli della mia.

Nel secondo, perché non volevo rischiare di addentrarmi nelle polemiche seguite all’annuncio del 2 aprile 2025.

E allora, perché lo sto facendo? Forse perché sento il bisogno, più profondo che razionale, di proporre una prospettiva diversa.

Magari impopolare, forse controcorrente perché credo ci siano delle ragioni che meritano di essere esplorate. Lo farò in due passaggi: prima una panoramica su cosa siano realmente le barriere doganali, poi un tentativo – forse scomodo – di mettersi nei panni del Presidente americano.

Barriere doganali: cosa sono davvero

Quando si parla di dazi, spesso lo si fa con superficialità, dimenticando che questi strumenti esistono per proteggere l’economia interna dalla concorrenza estera.

Tuttavia, la storia insegna: oltre una certa soglia, la protezione diventa una trappola. Le imprese, sentendosi al riparo, smettono di innovare e il sistema rischia di decadere.

Ma quanti tipi di barriere esistono? E con chi vengono applicate? In Europa, ad esempio, i dazi non si applicano tra Stati membri.

Fin dal 1968, con l’introduzione dell’Unione Doganale, sono stati eliminati i dazi intra-UE ed è stata introdotta una tariffa comune verso i Paesi terzi (extra UE). Questi ultimi, definiti “non unionali”, trattano con la UE come se fosse un singolo Stato, con regole doganali uniformi in tutti i 27 membri. A livello globale, il commercio è regolato dal WTO (World Trade Organization), che riunisce oltre 160 Paesi responsabili del 98% del commercio mondiale.

Il WTO nasce proprio per ridurre le barriere che ostacolano il libero scambio. Queste limitazioni possono essere tariffarie, come i dazi (calcolati ad valorem, cioè in percentuale sul valore della merce, o specifici, legati a peso o quantità), oppure non tariffarie.

Le barriere non tariffarie sono spesso meno visibili ma più insidiose: quote, contingentamenti, requisiti tecnici, licenze, standard di qualità o sicurezza.

Un esempio? Le ispezioni pre-spedizione, i certificati da ottenere in ambasciata, le licenze obbligatorie per lo sdoganamento.

Tutti ostacoli che, seppur giustificati dalla necessità di proteggere salute e sicurezza dei consumatori, possono diventare veri e propri strumenti di restrizione commerciale mascherata.

Negli ultimi anni, queste barriere non tariffarie stanno progressivamente sostituendo i classici dazi, rendendo ancora più complesso il commercio globale.

E qui torna in gioco il WTO.

Il WTO e la politica di Trump

Siamo sicuri che abbia senso aderire ad un’organizzazione multilaterale come il WTO, se poi se ne ignorano le regole? Il punto è chiaro: o si rispettano le regole comuni, o si riscrive il gioco. E forse è questo ciò che Trump ha provato a fare, nel suo stile discutibile ma diretto.

Anche come membro del WTO, ogni Stato conserva la sovranità per imporre barriere, purché in linea con gli impegni presi. Ma Trump non è certo noto per il rispetto delle formalità internazionali.

Già nel 2018, da Presidente, aveva introdotto dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, giustificandoli con la necessità di difendere l’industria siderurgica americana, considerata “strategica per la sicurezza nazionale”.

Nel 2020 aveva esteso i dazi anche ai derivati di questi materiali, come chiodi, cavi elettrici e componentistica per il settore trasporti.

Per farlo, Trump si era appellato a una norma del 1962, il Trade Expansion Act, attivando l’articolo 21 del GATT: una clausola che consente di imporre dazi unilaterali in caso di minaccia alla sicurezza nazionale. Un cavillo? Forse, ma legale.

E oggi, rispetto al Trump di allora, la sostanza non cambia: cambiano solo i toni. Il punto centrale della sua strategia resta lo stesso: riequilibrare la bilancia commerciale, soprattutto nei confronti della Cina. Nel 2018, il deficit commerciale USA con la Cina superava i 414 miliardi di dollari. Oggi, seppur ridotto grazie a dazi, restrizioni, e diversificazione delle catene di approvvigionamento (reshoring e nearshoring), il problema resta enorme.

Nel 2024, secondo il Bureau of Economic Analysis e l’U.S. Census Bureau, il deficit commerciale totale degli Stati Uniti ha toccato quota 1.061 miliardi di dollari:

  • Esportazioni: 1.827 miliardi
  • Importazioni: 2.888 miliardi

Parallelamente, operazioni di triangolazione – spesso poco trasparenti – hanno per anni agevolato l’ingresso negli Stati Uniti di prodotti soggetti a sanzioni, come ad esempio l’acciaio russo, tramite Paesi terzi come la Turchia.

È importante sottolineare che anche l’Italia non è estranea a queste dinamiche.

Basti pensare alla quantità di prodotti importati dalla Cina, immessi in libera pratica e, dopo semplici operazioni di assemblaggio o l’aggiunta di materiali di valore minimo (pari ad almeno il 45% del prezzo EXW), riescono persino a ottenere l’origine non preferenziale prima di essere riesportati verso gli USA come prodotti italiani. Certo è tutto regolare, peccato che a queste pratiche si affiancano migliaia di casi meno nobili.

Ma riflettiamoci un attimo: accetteremmo di essere costretti ad acquistare beni da chiunque, senza garanzie reali sulla qualità rispetto a quanto dichiarato nei documenti, rischiando magari di indebitarci per farlo?

Gli Stati Uniti sono esattamente nella situazione di cui sopra, rischiando un’emorragia economica reale, e forse Trump – con tutti i suoi limiti e i suoi modi discutibili – ha colto una parte della verità.

La questione non è solo economica, ma geopolitica. E se il mercato americano crollasse, le conseguenze ricadrebbero anche su di noi, o quanto meno su quegli imprenditori corretti che con gli States fanno affari onestamente.

Forse avremmo potuto noi, prima di lui, imporre un freno a certe pratiche scorrette. Forse no. Ma ignorare il problema oggi significa solo rimandare il conto a domani.