Revisiting Taylor, cento anni dopo. Il libro che ha sconvolto un secolo

Riccardo ZuffoRiccardo Giorgio Zuffo, docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni all’Università di Chieti e Pescara, nel suo ultimo libro “Revisiting Taylor”, edito da Franco Angeli, propone una interessante riflessione su quanto oggi resti dell’esperienza, delle concezioni e dei valori dell’“uomo di Philadelphia”. Di quanto siano ancora forti le influenze del pensiero originario di Frederick W. Taylor sul lavoro, l’organizzazione e i modelli di management, ma anche di molto altro, abbiamo parlato con l’autore in un’intervista.

 

Come possiamo riassumere il significato che ha avuto storicamente il pensiero di Taylor?
Quasi cento anni dopo la storica intuizione di Adam Smith sulla centralità della divisione del lavoro come fattore determinante della generazione di valore, iniziano a delinearsi le prime concezioni dell’industria moderna e di quello che sarà definito Scientific Management.
Taylor esprime opinioni comparabili a quelle di Smith quando sottolinea l’importanza di un clima di intima e cordiale collaborazione fra le parti sociali allo scopo di accrescere la produttività per aumentare la quantità e la qualità di risorse disponibili e di potere, così da arricchire i benefici erogabili ai portatori d’interesse.
Quindi sia Smith che Taylor partono da un quadro di valori di fondo omogeneo, per arrivare a precisare come alla base del problema organizzativo ci sia una situazione d’interdipendenza fra attori economici e operatori organizzativi che pone nuove sfide a coloro che aspirino ad agire allo scopo di accrescere la propria felicità individuale e di ampliare il bene comune.
Con Taylor si assiste al sorpasso della cultura industriale americana su quella europea e insieme anche un salto epocale nella storia della modernità e della industrializzazione. È la prima teorizzazione del processo produttivo, della fabbrica intesa come “macchina delle macchine”, di una analisi di secondo livello dello sviluppo delle tecnologie nel loro complesso che trascende il singolo aspetto di innovazione di una tecnica specifica.
Il pensiero di Taylor è storicamente importante tanto che un secolo dopo una rilettura delle sue opere, contestualizzata in quella che è stata definita come l’“epoca del progresso”, assume il valore paradigmatico di una riflessione più ampia, che ci induce a ripensare al presente e a quali aspetti della sua opera e della sua azione possano essere in qualche misura essere ripresi e focalizzati.

 

Una pietra di paragone pensando a Taylor è Ford. Quali sono le differenze fra il fordismo e il taylorismo?
Entrambi sono il risultato dei cambiamenti indotti dalla produzione di massa in un paese le cui dimensioni del mercato domestico inducevano enormi potenzialità di consumo. È comunque fuorviante e parzialmente riduttivo definire Ford come un perfezionatore e successore di Taylor nel nome comune della razionalizzazione produttiva.
Taylor configura un modello nel quale tecnologie di prodotto, macchine utensili, attrezzi di lavoro, processi e uomini iniziano ad essere lucidamente raccordati. La natura dei problemi da affrontare è profondamente diversa da quella che Ford si troverà davanti approssimativamente circa trent’anni più tardi, quando il sistema imprenditoriale si presenta molto più evoluto, il rapporto con le “tecniche” meno occasionale e a-sistematico, la struttura e la concezione dell’impresa consolidata e pronta ad entrare nella sua fase più matura.
Taylor è un intellettuale: è attento alle applicazioni concrete ma è pur sempre un intellettuale che propone un modello, diremmo ad “alta valenza sociale”, di volta in volta al servizio dei propri clienti.
Ford è invece un contadino benestante, creativo e geniale, un tecnico d’avanguardia, meno sofisticato, con una cultura meno ampia ma focalizzata, che diventa industriale per passione della tecnica e delle sue possibili applicazioni. Taylor, con la proposta di un modello sociale e di un sistema produttivo che elimini gli sprechi, pensa a un mondo migliore, nella piena consapevolezza del senso dello Stato e del benessere del suo paese nello spirito di un positivismo al tramonto.
Il fordismo, non vantando finalità sociali, al di là delle dichiarazioni, ha invece il compito di garantire il massimo dell’efficienza quotidiana delle linee di montaggio, di semplificare con la forza delle tecnologie i metodi e il lavoro, di assicurare che la giostra corra la sua corsa 24 ore al giorno e che la spossatezza indotta dal lavoro alienato sia compensata dalla certezza del salario, dalla rassicurante figura di una moglie a casa e dalla morigeratezza dei costumi.
In Ford è la tecnologia, la catena di montaggio in altre parole, che cambia radicalmente il modo di lavorare e le modalità di controllo del lavoro. Taylor, invece, si focalizza sull’analisi del lavoro e sullo studio delle attrezzature che, in relazione alle caratteristiche del compito, meglio si adattano alla sua realizzazione. Taylor è un ingegnere ed è naturale che la sua impostazione sia fortemente centrata sull’idea di progetto, inteso come disegno e creazione di qualcosa che migliora e supera l’esistente. Ma nel contempo è un ingegnere che riconosce lo spazio autonomo dell’organizzazione, non vista come semplice riflesso della tecnologia.

 

copertina libro taylor web

Ma quanto sono ancora forti oggi le influenze del taylorismo sul lavoro, l’organizzazione e i modelli di management?
Un secolo dopo è difficile discriminare ciò che è di Taylor da ciò che non lo è. Tuttavia è possibile affermare che le influenze del taylorismo sulle organizzazioni sono ancora molte. Infatti le origini e lo sviluppo del knowledge management possono essere, a buon diritto, fatte risalire ai pensieri ed agli strumenti elaborati da Taylor: la massimizzazione del livello di produttività richiede un salto di qualità che può realizzarsi solo grazie all’impostazione e alla gestione di un knowledge management condotto centralmente dalla direzione dell’impresa. La funzione del knowledge management è quella di permettere il ri-uso, il perfezionamento e la ridefinizione dei metodi e dei tempi di lavoro: il ri-uso consente di utilizzare modalità già testate positivamente riguardo a fasi omogenee di processi organizzativi differenti, il perfezionamento tiene conto delle economie di esperienza cumulate nel tempo, la ridefinizione delle modalità di lavoro può essere innestata da processi d’innovazione tecnologica e di contesto.
La principale finalità della direzione scientifica del lavoro è quella di assicurare il massimo di prosperità sia per il datore di lavoro che per il lavoratore. Per il primo, questo obiettivo non significa solo profittabilità elevata nel breve termine, quanto lo sviluppo di tutte le dimensioni dell’impresa verso una condizione di benessere duraturo. Per il secondo, prosperità non significa avere subito un più elevato saggio salariale, ma disporre della possibilità di svolgere il proprio lavoro al massimo livello di efficienza, essendo collocato al posto giusto rispetto alle proprie capacità. In altri termini le basi della filosofia di Taylor possono essere ricondotte ai dilemmi di competizione e cooperazione della teoria dei giochi. Più precisamente sia datori di lavoro che i lavoratori sono portati, da una parte, a competere per aumentare il proprio guadagno a spese degli altri, dall’altra, a cooperare per aumentare l’area del surplus da ripartire.

 

Quali elementi del modello taylorista possono, invece, essere considerati ormai superati?
Il modello taylorista è un modello di razionalità scientifica, che trova giustificazione nella scienza positivista. In parte risulta essere superato perché l’odierno funzionamento organizzativo risponde alla logica della razionalità limitata di Simon, ma funziona se si vuole produrre in una quantità di tempo limitata. L’analisi del lavoro di Taylor ha portato a mettere in evidenza fin dagli anni venti del secolo scorso i limiti delle soluzioni proposte e a mettere in discussione i presupposti di base e i criteri per la progettazione della mansione. In primo luogo, sono stati messi in evidenza gli effetti negativi di una specializzazione dei compiti e di una divisione del lavoro spinte agli eccessi, che comportano non solo aumento della fatica e della monotonia per il lavoratore, ma anche perdite di produttività e quindi un risultato effettivo per l’organizzazione contrario alle attese. Vi sono poi altre critiche che nel prendere di mira i limiti dell’approccio ne hanno messo a nudo i suoi presupposti ideologici, come ad esempio: la sottovalutazione dei parametri psico-fisici e delle differenze tra i diversi individui; la visione semplicistica del rapporto lavoratore-prestazione; la visione individualistica che portava a escludere la dimensione sociale nel lavoro. La critica più ampia riguarda il taylorismo come paradigma organizzativo e quindi il modello basato su una forte divisione del lavoro, su mansioni ristrette, sulla netta separazione tra chi progetta e chi esegue, sulla presenza di lunghe catene gerarchiche e di pesanti strutture di staff. Si tratta quindi di una struttura caratterizzata da profonde “fratture organizzative”, dalla frammentazione del lavoro, dove il coordinamento per la realizzazione degli obiettivi dell’organizzazione si basa principalmente sulla gerarchia. Tale modello organizzativo comporta inevitabilmente elevati costi di struttura e una sostanziale rigidità, che emerge con evidenza e con conseguenze negative nei contesti produttivi caratterizzati da elevata variabilità di mercato e da differenziazione dei prodotti.

 

L’analisi delle teorie di Taylor può fornire una chiave di lettura della crisi economica attuale, forse anche in termini etici?
Lo scientific management nasce come equilibrio tra istanze etiche e generazione di valore. Si immaginava una concezione smithiana che permettesse il massimo sviluppo delle risorse che la natura metteva a disposizione. La scienza era considerata buona e portatrice di libertà, ma la storia del ‘900 ha dimostrato come anche la scienza può piegarsi ad interessi ambivalenti come l’uso dell’ICT in ambito militare e delle biotecnologie in campo di manipolazioni genetiche. Il forte idealismo etico di Taylor concerneva anche un atteggiamento non del tutto favorevole alla rendita finanziaria come finalità primaria. Taylor può dunque rappresentare un buon esempio per il management e per il rapporto tra sistemi produttivi e società civile in un tempo che scompone e non mette insieme parole chiave come ricerca, benessere, salvaguardia del posto di lavoro.
Un secondo aspetto è l’impressionante velocità del cambiamento che ha connotato la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Oggi siamo in una situazione simile: i processi epocali indotti dallo sviluppo dell’ICT, dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione sono fenomeni di grande complessità. Taylor ha sviluppato un “sapere frattale”, da bricolage, approssimato, talvolta di buon rigore scientifico altre da approssimazione discutibile. Il pensiero tayloriano era però governato da un’istanza di “bene collettivo”, necessaria per dare impulso e illusione alle azioni. Taylor era un idealista, non aveva dubbi sulla distinzione tra il bene e il male e, pur all’interno delle contraddizioni sociali del tempo, era in lui ancora chiara la volontà di produrre un sapere finalizzato alla generazione di una maggiore ricchezza, destinata agli uomini “con un solo paio di scarpe in un anno” e al suo paese. Lo sviluppo dei consumi, il superamento della miseria erano sicuramente temi forti e centrali nell’ideologia positivista della fine dell’ottocento. Oggi, invece, si ha la sensazione che lo sviluppo dell’economia e delle nostre discipline scientifiche di riferimento non sempre possa rispondere ad una dimensione etica per il miglioramento della qualità della vita degli uomini.