Omaggio a Andy Warhol, artista televisivo

andy warholLa sua idea di “scatola meravigliosa” è stata amalgama tra arte contemporanea e sperimentazione audiovisiva

 

Di Andy Warhol (1928-1987) sappiamo tanto. L’artista che ha creato le serigrafie e multipli con i personaggi del mondo pop (Marylin Monroe, Mick Jagger, Elisabeth Taylor, Michael Jackson), della politica (Mao, Che Guevara) e di oggetti di consumi di massa (le zuppe Campbel, la Coca Cola). Il teorico dei 15 minuti di fama dovuti a tutti.

Il regista immaginifico di opere “assolute” (“Flesh”, “Trash”, “Nude Restaurant” e un’altra decina di film che sfidano lo sguardo), il producer algido, il fondatore della Factory, lo scopritore di talenti (dai Velvet Underground a Basquiat), il nightclubber, il grande provocatore dell’arte come marketing e mille altre cose dentro e fuori il “sistema dell’arte”. 

Sicuramente meno conosciuto il lavoro televisivo di Andy Warhol. Immediatamente va detto che la “sua” idea di televisione è amalgama tra arte contemporanea e sperimentazione audiovisiva. La sua produzione televisiva è uno scenario che in maniera potente s’inserisce nella vastissima produzione pop dell’artista. Andy Warhol è, appunto, una delle figure più significative dell’arte e della cultura del Novecento. A partire dagli anni Sessanta è stato tra i maggiori interpreti di una nuova visione del mondo e della vita, una visione estetica che è stata denominata pop. Ma, a differenza di altri protagonisti della Pop Art, l’opera di Warhol ha espresso una straordinaria capacità di penetrare nei tessuti della comunicazione contemporanea attraverso svariate modalità operative, creando un’inedita rete multimediale. Analizzando i vari linguaggi artistici utilizzati da Warhol (in particolare la pittura e il cinema) e le riflessioni disseminate nei suoi scritti e nelle interviste troviamo un continuo sconfinamento nella cultura dei mass-media e del costume.
Dai feticci industriali all’indagine sul divismo hollywoodiano, dal tema della morte al travestitismo, dal cinema underground all’arte commerciale, l’estetica warholiana rivela una continua sovrapposizione mimetica con la sua fonte iconica principale, l’America, metafora assoluta di una contemporaneità ridotta a superficie. Dalla telecamera immobile che riprende l’Empire State Building ai primi piani di Edie Sedgwick, dalle interviste “mute” agli autoritratti alle canzoni a lui dedicate, tutto questo è Warhol, il Warhol immerso in quella “scatola meravigliosa” che a detta di Warhol era la tv. L’analisi di uno strumento oggi così abusato e sopravvalutato è interessante a mio parere per comprenderne l’evoluzione da un punto di vista freddo e distaccato come quello del Warhol nei suoi variopinti talk shows, un atteggiamento che oggi, rispecchia tutti noi, telespettatori sempre più distratti. Warhol ha messo a nudo la nostra realtà, vestita solo di pixel, la nostra sedentarietà e indifferenza dinanzi al già visto, al già sentito e al già vissuto.

Oggi la tv non è sola, pensiamo a youtube, google, facebook, instagram, twitter. L’alienazione in scala, comoda e deformante.

Oggi basta un click per trasformare un proprio selfie in un’icona pop; i famosi quindici minuti di celebrità che tutti possono ottenere nella propria vita che preconizzava già cinquant’anni fa l’egocentrico artista.
Warhol voleva provocare, voleva la fama, anche televisiva, voleva il chiacchiericcio inconsistente, perché la televisione si nutre di tale vacuità, la stessa che alimenta quasi interamente le giornate delle nuove e ormai anche delle vecchie generazioni di telespettatori e social network addicted. Warhol scompare nei pixel nella pubblicità per la TDK e la domanda che mi pongo concerne il grado di consapevolezza che oggi ci abbandona all’alienazione, oggi così come cinquant’anni fa. “Quanto rimarrà della comunicazione reale e che prezzo bisognerà pagare per imparare a riconoscere il limite da non superare?”