Il recesso del socio di minoranza nelle società di capitali

Legittimo quando mutano in peius le clausole statutarie per la distribuzione degli utili

Il tema del rispetto dei diritti del socio nelle società di capitali è di evidente interesse per un gran numero di soggetti che detengono quote anche minime del capitale, per cui, traendo spunto dall’esperienza professionale e da una recente decisione della Suprema Corte, propongo alcune riflessioni sul diritto di recesso del socio in occasione di modifiche statutarie che influiscono sulla distribuzione degli utili.

Occorre partire dalla disposizione normativa dell’art. 2437 c.c. che disciplina il diritto di recesso dei soci nelle società di capitali consentito se questi non abbiano concorso alle deliberazioni assembleari da cui è scaturita la potenziale causa di recesso.

Al primo comma dell’art. 2437 che prevede le cause inderogabili non eliminabili con una clausola statutaria, sono indicate le ipotesi di modifiche statutarie che legittimano il recesso: a) la modifica della clausola dell’oggetto sociale,
quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società; b) la trasformazione della società; c) il trasferimento della sede sociale all’estero; d) la revoca dello stato di liquidazione; e) l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal successivo comma ovvero dallo statuto; f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso; g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione.

Tra le ipotesi di modifiche statutarie che permettono l’exit del socio, in riferimento al caso di recente interesse del giudice di legittimità, esaminiamo l’ipotesi di cui alla lettera g). Nella controversia societaria che ha dato origine alla decisione della Cassazione civile sez. I, 22 maggio 2019 n. 13845, alcuni soci avevano adito il Tribunale a seguito dell’incorporazione della società di loro interesse in una società per azioni per ottenere  l’accertamento della validità e l’efficacia del loro recesso dall’incorporata e ottenere di conseguenza la condanna dell’incorporante alla determinazione del valore di liquidazione delle loro azioni. In primo e secondo grado le loro domande venivano accolte nel merito, la Corte d’Appello aveva ritenuto sussistere una compressione dei diritti di partecipazione dei soci ai sensi dell’art. 2437 c.c., comma 1, lett. g), visto che a seguito della fusione per incorporazione vi era stata una modificazione dello statuto con significativa elevazione dei limiti di riserva legale, del tetto di accantonamento e del limite di riserva statutaria straordinaria, con correlata penalizzante incidenza sulla possibilità di distribuire dividendi. La controversia infine approdava alla Suprema Corte per impulso della società per azioni incorporante. La difesa della ricorrente sosteneva una falsa applicazione dell’art. 2437 c.c., lett. g), sul cui presupposto era stata accolta la domanda di merito in quanto la norma doveva essere interpretata in senso restrittivo.

Il recesso dei soci poteva essere legittimato solo da un pregiudizio dei diritti partecipativi dei soci esistenti, e non sulla base di mere aspettative come quelle relative alla distribuzione degli utili di esercizio. Nel particolare la società incorporante faceva riferimento ad un articolo dello statuto della società risultante dalla fusione che non implicava alcun mutamento della quota di partecipazione agli utili delle diverse categorie azionarie, né dei diritti incorporati nell’azione.

Inoltre secondo la tesi della ricorrente i soci recedenti non avevano subito un pregiudizio dalla previsione statutaria di minore distribuzione degli utili in quanto tale disposto sarebbe stato “ampiamente compensato dall’aumento del valore patrimoniale” derivante dalla minore distribuzione.

La Corte ha ritenuto il motivo in questione infondato. L’argomentazione dei giudici di piazza Cavour ha evidenziato come, per tabulas, mentre nello statuto della società incorporata si prevedeva la distribuzione dei dividendi previa destinazione di almeno il 5% a riserva legale e di un ulteriore 5% a riserva straordinaria, lo statuto dell’incorporante consente di distribuire dividendi solo previa elevazione delle percentuali destinate sia a riserva legale (12%) che a riserva statutaria straordinaria (40%) con un aumento del tetto di accantonamento complessivo della riserva legale medesima dal venti al quaranta per cento. Detta modifica rappresentava all’evidenza un nocumento per i diritti patrimoniali dei soci in considerazione del diverso regime statutario ante incorporazione.

La previsione dell’art. 2437, I comma, lettera g) risponde alla ratio di tutelare i soci di minoranza e, sempre secondo la Corte, assume rilievo nel quadro della modifica del regime di recesso disposta dal legislatore allo scopo di “rafforzare, certo, il potere della maggioranza, e conseguentemente comprimere le possibilità di veto delle minoranze, ferma però la necessità di riequilibrare gli interessi in gioco mediante un coerente rafforzamento pure dei diritti individuali dei soci, in vista del possibile disinvestimento della partecipazione”. Secondo la Corte può discutersi se con l’espressione “diritti di partecipazione” si possa far riferimento anche ai diritti amministrativi esclusi da una interpretazione restrittiva “ma non è dubitabile che l’espressione si riferisca in ogni caso ai diritti patrimoniali, perché tali sono, nella società di capitali, quelli implicati dal diritto di partecipazione”.

Rilevava il Giudice di legittimità che “il fine stesso della partecipazione è quello di giungere alla soddisfazione, mediante la distribuzione dell’utile, di un interesse patrimoniale. Sicché appare consequenziale che una modifica statutaria, relativa alla distribuzione dell’utile, rientri in pieno tra le cause legali inderogabili di recesso”. Nel caso de quo era stato accertato dal giudice del merito che la modifica della clausola statutaria attinente alla distribuzione dell’utile influenzava in negativo i diritti patrimoniali dei soci perché, prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio, in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva, finiva per limitare la libertà dell’assemblea ordinaria di deliberare sul punto andando a nuocere alle prerogative patrimoniali degli azionisti e in tale frangente il diritto di exit non poteva essere negato.

La Corte, nel respingere il ricorso della società per azioni, ha esposto in diritto il seguente principio: “in tema di recesso dalla società di capitali, l’espressione “diritti di partecipazione” di cui all’art. 2437 c.c., lett. g), per quanto nell’ambito di una interpretazione restrittiva della norma tesa a non incrementare a dismisura le cause legittimanti l’exit, comprende in ogni caso i diritti patrimoniali implicati dal diritto di partecipazione, e tra questi quello afferente la percentuale dell’utile distribuibile in base allo statuto; ne consegue che la modifica di una clausola statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell’utile, che influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva, giustifica il diritto di recesso dei soci di minoranza”.

La società per azioni incorporante, che dovrà procedere alla liquidazione delle quote degli ex soci, è stata di conseguenza condannata alla rifusione delle spese a favore dei soci recedenti, oltre che al versamento di un ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso.