Il caso Dolce & Gabbana: società estera controllata e luogo della direzione effettiva ai fini fiscali

maurizio galardo bigLa Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso proposto e ribaltando l’impostazione dei giudici di merito, ha e videnziato che il criterio della «direzione effettiva» quale luogo di individuazione del domicilio fiscale può non essere sufficiente e, comunque, compor tare evidenti storture applicative nel caso di società controllate, soprattutto in quelle in cui il capitale sociale della controllata è interamente di proprietà della controllante

La Corte di Cassazione Sez. III Penale con la recentissima sentenza numero 43809/2015 ha stabilito, tra l’altro, un principio fondamentale in materia di diritto tributario internazionale con riguardo all’individuazione della sede effettiva ai fini fiscali di una società estera controllata ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. da una società italiana.

Per comprendere meglio il significato della pronuncia è necessario descrivere brevemente i fatti contestati e il complessivo iter processuale.
Ai ricorrenti era stato contestato di aver in concorso tra loro, e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, omesso di dichiarare, ai fini dell’imposizione diretta e indiretta, gli elementi positivi di reddito conseguiti attraverso lo sfruttamento dei marchi «Dolce & Gabbana» e «D&G Dolce & Gabbana», dalla «GADO S.a.r.l.» società con sede nel Principato di Lussemburgo ma che l’imputazione contestava essere stata di fatto gestita in Milano. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’evasione d’imposta era stata conseguenza di una complessa operazione di ristrutturazione degli assetti
societari facenti capo alla holding «D&G s.r.l.», quest ’ultima interamente controllata dai due stilisti, per effetto della quale i signori Domenico Dolce e Stefano Gabbana avrebbero, secondo quanto asserito nell’imputazione, sottratto all’Erario le imposte derivanti dallo sfruttamento dei marchi «Dolce & Gabbana» di cui erano stati titolari fino al marzo del 2004 nella misura del 50% ciascuno.

L’operazione in particolare sarebbe stata realizzata, secondo l’ipotesi accusatoria, mediante le seguenti operazioni:

a) la costituzione in Lussemburgo di due nuove società, la «Dolce & Gabbana Luxemburg S.a.r.l.» controllata interamente dalla holding italiana «D&G S.r.l.» e la «GADO S.a.r.l.» interamente partecipata dalla «Dolce & Gabbana Luxemburg S.a.r.l.»;
b) il trasferimento avvenuto in data 29/03/2004 alla «GADO S.r.l.» dei marchi di proprietà di Domenico Dolce e Stefano Gabbana, tra i quali appunto «Dolce & Gabbana» e «D&G Dolce & Gabbana»;
c) la concessione del diritto allo sfruttamento dei marchi, con facoltà di concedere sub-licenza ad altri soggetti da parte della «GADO S.a.r.l.» alla «Dolce e Gabbana S.r.l.» società controllata dalla «Dolce & Gabbana Luxemburg S.a.r.l.», con contratto di licenza del 31/7/2004 e dietro corrispettivo del pagamento delle relative royalties.

In questo modo le royalties che in precedenza venivano direttamente percepite dai due stilisti, così concorrendo a formare la base imponibile dei loro redditi, venivano adesso percepite dalla «GADO S.a.r.l.» società di diritto lussemburghese, soggetta a tassazione di maggior favore.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 19/06/2013, aveva considerato fraudolenta la natura dell’intera operazione, perché ritenuta finalizzata a sottrarre all’imposizione erariale i consistenti flussi reddituali derivanti dallo sfruttamento dei marchi «Dolce & Gabbana» e «D&G Dolce & Gabbana», dichiarando i ricorrenti colpevoli del reato di cui agli articoli 110, 81 cpv, 61 n. 7 cod. pen. , 5 d.lgs. 10/3/2000 n. 74, commesso dal 28/02/2006 al 01/5/2007.

Successivamente la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 30/4/2014, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli appellanti in ordine ai reati loro ascritti concernenti l’evasione dell’IVA per l’anno 2004 e l’evasione dell’IRES per l’anno 2004/2005 perché estinti per prescrizione, rideterminando la pena loro inflitta e confermando nel resto la sentenza di primo grado.

 

Secondo i giudici di merito, la «GADO S.a.r.l.» era una società priva di una propria struttura operativa e di una reale autonomia decisionale in ragione, tra l’altro, delle seguenti circostanze principali:

a) la contabilità era tenuta da una società di domiciliazione lussemburghese che forniva ai clienti anche ser vizi di natura tecnico/ pratica e/o logistica, oltre che di natura amministrativa e contabile;
b) la «GADO S.a.r.l.» non disponeva di un’autonoma organizzazione preposta alla tenuta della contabilità e all’amministrazione;
c) dal marzo 2004 al febbraio 2005 non disponeva neanche di dipendenti, soltanto successivamente era stata assunta una dipendente che si occupava dell’attività relativa alla tutela dei marchi, anticontraffazione, prevenzione abusi, registrazione ecc.;
d) il fatto che numerose direttive venissero impartite via email dall’Italia.

In buona sostanza i Giudici del merito, da un lato non negavano che la complessiva operazione di ristrutturazione societaria del gruppo fosse realmente funzionale all’esigenza di rafforzare di marchi, fornire maggiori garanzie, attrarre investimenti, quotare la società in borsa, riequilibrare gli assetti societari, dall’altro avevano rinvenuto, nella costituzione in Lussemburgo della sede della neocostituita società titolare dei marchi, un elemento di anomalia che, a loro avviso, avrebbe compro messo la trasparenza e la regolarità dell’intera operazione evidenziando la “esterovestizione” della “GADO S.a.r.l.” trattandosi di società allocata in Lussemburgo al solo “presunto” fine di consentire la sottrazione di un’ingente porzione di reddito imponibile relativo alle royalties prodotte in Italia dalle licenziatarie e dalle sub-licenziatarie, trasferendole in Lussemburgo dove le stesse venivano tassate applicando l’aliquota del 4%, così sottraendo base imponibile alla tassazione italiana e realizzando una condotta di evasione e non una legittima ottimizzazione del carico fiscale.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso proposto e ribaltando l’impostazione dei giudici di merito, ha evidenziato che il criterio della «direzione effettiva» quale luogo di individuazione del domicilio fiscale può non essere sufficiente e, comunque, comportare evidenti storture applicative nel caso di società controllate ai sensi dell’art. 2359 comma 1) cod. civ., soprattutto nei casi in cui il capitale sociale della società controllata è interamente di proprietà della controllante.

Sottolinea la Corte di Cassazione che indentificare “tout court ” la sede amministrativa della società controllata con il luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche o dal quale partono gli impulsi decisionali può in questi casi comportare conseguenze aberranti ove esso dovesse identificarsi con la sede della società controllante, in evidente contrasto con le ragioni stesse della politica del gruppo e le esigenze sottese al suo controllo.

La Corte di Cassazione evidenzia come l’interpretazione dei giudici di merito si ponga addirittura in contrasto con la presunzione di “etero-direzione” della società controllata che costituisce la “ratio” della disciplina di cui agli artt. 2497 e segg. cod. civ. di cui al Capo IX del titolo V del libro V come sostituito dall’art. 5 del d.lgs. 17/01/2003 n. 6 e in particolare con quanto previsto dall’art. 2497 – sexies cod. civ. secondo il quale «si presume salvo prova contraria che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’art. 2359 cod. civ.».Sotto altro profilo, il legislatore fiscale in caso di imprese estere controllate privilegia il dato dell’esercizio effettivo dell’attività quale elemento selettivo della riconducibilità o meno in Italia dei redditi prodotti all’estero.

Orbene sottolinea la Suprema Corte che, se la società controllata esercita (effettivamente) la propria attività anche solo utilizzando un ufficio in Lussemburgo, il rapporto di controllo societario impedisce di ritenere detto ufficio stabile organizzazione dell’impresa italiana.

La Suprema Corte è giunta così attraverso un esame interdisciplinare della normativa societaria, tributaria e penale, nonché della Giurisprudenza anche comunitaria, all’elaborazione del seguente principio di diritto:

a) la sede amministrativa dei soggetti diversi dalle persone fisiche rilevante ai fini dell’individuazione del “domicilio fiscale” ai sensi dell’art. 59 comma 1 del D.P.R. n. 600/1973 si identifica nel centro effettivo di direzione e svolgimento della sua attività, ove cioè risiedono gli amministratori, viene convocata e si riunisce l’assemblea, si trovano coloro che hanno il potere di rappresentare la società, il luogo destinato a essere stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente e nel quale dunque hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dello stesso e dove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti;
b) in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359 comma 1) cod. civ. non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative ove esso si identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana;
c) in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia una costruzione di puro artificio, ma corrisponda ad un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo e statuto;
d) per accertare la natura artificiosa o meno della società estera si può fare affidamento ai criteri indicati dall’art. 162 del D.P.R. 917 del 1986 per definire la «stabile organizzazione» o a quelli elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per identificare le società cosidette “casella postale” o “schermo”;
e) si tratta in ogni caso di accertamenti che appartengono alla ricostruzione del fatto-reato e che, in quanto tali, devono essere condotti dal giudice in modo autonomo, secondo regole di giudizio proprie del processo penale che non tollerano inammissibili inversioni dell’onere della prova frutto del ricorso alle presunzioni fiscali.