Fondazioni: cambiare la normativa per evitare un nuovo caso MPS

Bruno Criscuolo WebServono strutture più sobrie, slegate da conflitti di interessi, autonome e composte da soggetti non solo professionalmente qualificati, ma anche adeguatamente formati per il lavoro che dovranno svolgere

 

Nel 2010 il Financial Times, pietra miliare del giornalismo economico mondiale, definiva le Fondazioni “una importante parte regionale del controllo politico-economico del sistema sulle banche”. Ma cos’è esattamente una Fondazione?
Nate nel 1990 con la legge Amato-Carli, secondo una definizione prettamente tecnica, queste sono enti di diritto misto pubblico-privato senza scopi di lucro, aventi come fine il perseguimento del valore collettivo e dell’utilità generale. In sostanza, sembrerebbero una cosa buona.
Già nel 1999 però, dopo l’approvazione della legge Ciampi – che prevedeva la formale separazione del controllo delle banche dalle fondazioni – una parte cospicua dei commentatori economici dell’epoca recitava slogan anti-fondazioni di varia natura: “liberare le fondazioni dalle banche” e “liberare le banche dalle fondazioni”. La linea legislativa del 1999 però è stata sconfessata dalla realtà fattuale: oggi le fondazioni bancarie, pur avendo per lo più dismesso il controllo delle banche conferitarie, sono, nell’insieme, i soci di riferimento dei maggiori gruppi bancari italiani e continuano a esercitare un’influenza dominante nel disegnare le loro strategie e nel dare concreto contenuto alle scelte gestionali.
Le fondazioni, di conseguenza, continuano a svolgere due mestieri: quello caratteristico di ente non profit e quello, assolutamente improprio, di influente gestore delle banche.
Vediamo come, prendendo in analisi la drammatica situazione del Monte dei Paschi di Siena.

IL CASO MPS

I guai del Monte iniziano nel lontano 2008, quando la Fondazione, per tenere il passo delle altre banche multinazionali che operano sul territorio (Intesa, Unicredit), decide di rilevare dal Banco di Santander il gruppo Antonveneta per la cifra folle di 9 miliardi di euro, un’offerta superiore del 50% rispetta ai costi sostenuti dalla Santander – 6.6 miliardi di euro – per la stessa operazione, pochi mesi prima. Per compiere il blitz Antonveneta, la Fondazione decide di ricorrere a politiche di forte indebitamento verso i colossi JP Morgan e Nomura, impegnandosi a rimborsare eventuali perdite, ma accollandosi tutti i rischi delle operazioni.
Ai dati del 2011 la Fondazione del MPS presentava un patrimonio di 5,4 miliardi di euro, investiti all’89% nelle attività della banca, di cui detiene il 45% delle azioni ordinarie e quasi il totale di quelle di risparmio e privilegiate. Nel biennio precedente però, stante la crisi del settore, la Fondazione decise di smettere di fare accantonamenti subendo una flessione del rendimento del patrimonio dell’1,87% nel 2009 e dello 0,68% nel 2010: in tre parole, la banca era pesantemente sottocapitalizza.

BILANCIO FINALE
Nel 2012 i primi nodi della gestione della fondazione vengono al pettine: i primi ammanchi di bilancio vengono stimati in 3,9 miliardi di euro e coperti con la sottoscrizione da parte dell’Istituto dei cosiddetti Monti bond. A inizio 2013 si scopre un altro buco di entità incerta, tra i 200 e 500 milioni di euro, cui fa seguito l’ipotesi di una rinegoziazione del prestito di natura statale. La Fondazione Mps si è indebitata fino al collo pur di non diluire la sua quota di controllo nella banca conferitaria e questo ha aggiunto ai problemi di patrimonializzazione della banca senese quelli di un piano di rientro del debito della fondazione che si annuncia molto complesso e di difficile attuazione, tant’è che la scadenza per la sua presentazione è stata recentemente prorogata, prendendo atto dell’impossibilità di definirlo entro gennaio come inizialmente previsto. 

La resistenza della fondazione a diluire la propria quota e la ferma intenzione di non scendere al di sotto del 33% che le garantisce la possibilità di esercitare il controllo sulle assemblee straordinarie ostacolano la ricapitalizzazione della banca e, al tempo stesso, impediscono alla fondazione di varare un serio e credibile piano di rientro del debito. Nell’eventualità che MPS non sia in grado di rimborsare i Monti Bond, sarà costretta a ripagare lo Stato in azioni, di conseguenza il Tesoro potrebbe improvvisamente trovarsi a gestire l’82% della Banca, lasciando ai soci attuali le briciole.

Il caso MPS ha fatto riemergere i dubbi già sollevati da alcuni osservatori 23 anni fa:
a) le fondazioni non sono soggetti che hanno come primo obiettivo l’efficienza delle gestioni;
b) le fondazioni sono autoreferenziali e i loro gestori non rispondono del proprio operato come banchieri sulla base dei risultati delle gestioni bancarie, ma sulla base di fedeltà politiche o di altra natura. In parole povere, i loro membri non sono scelti per qualità della gestione o competenze tecniche: sono di nomina politica.
c) le fondazioni non sono in grado di assicurare, anche in futuro, un adeguato flusso di capitale proprio alle banche partecipate.

 

SCENARI FUTURI

Secondo gli intenti della legge Ciampi del 1991, le fondazioni dovevano uscire gradualmente dall’azionariato delle banche, senza utilizzare le loro partecipazioni come strumento di controllo. Ciò perché per costituzione hanno obiettivi distorti: essendo di emanazione politica privilegiano il controllo sull’efficienza. Se investite della scelta del management, esse tenderanno a preferire un manager arrendevole e ossequioso a uno competente e indipendente. Per le loro finalità istituzionali, le fondazioni dovevano investire le loro dotazioni in modo da contenere il rischio e massimizzare gli utili per renderli alle loro comunità in opere di pubblica utilità. Detengono invece portafogli concentrati, aumentando il livello d’indebitamento e, conseguentemente, il rischio degli investimenti associati e trasferendolo di fatto ai loro concittadini.

É esattamente ciò che è accaduto nel caso MPS: il costo dell’azzardo morale derivante dalle scelte di un management inadeguato, unito alla scarsa vigilanza dei regolatori pubblici (Ministero dell’Economia e Bankitalia) rischiano di ricadere sulle spalle dei contribuenti.
Il sistema delle fondazioni è consapevole della situazione e da tempo si chiede come coniugare il radicamento territoriale con lo sviluppo di un welfare incardinato su un virtuoso intreccio tra pubblico e privato, intreccio cruciale per consentire il mantenimento e la sopravvivenza di un livello accettabile di servizi.

DUE PAROLE CHIAVE: GOVERNANCE E ACCOUNTABILITY

Come suggerito dall’economista Tito Boeri, le fondazioni dovranno innanzitutto rivedere i propri sistemi di governance: il contemporaneo aumento dei vincoli finanziari e delle richieste presuppone forti capacità di governo e di selezione dei progetti. Servono dunque strutture più sobrie, slegate da conflitti di interessi, autonome e composte da soggetti non solo professionalmente qualificati, ma anche adeguatamente formati per il lavoro che dovranno svolgere.

Altro aspetto importante è quello dell’accountability e cioè la ricerca di indici trasparenti e omogenei per dar conto del proprio operato, facendo vedere non solo quello che si è fatto, ma il rapporto tra ciò che si è programmato e poi realizzato, le procedure di selezione e le ragioni che giustificano le scelte effettuate.anche alla luce di una analisi costi/benefici.