CALABRÒ: «Le nostre industrie sono capitale sociale positivo»

La cultura del mercato si deve legare con le esigenze di migliori equilibri sociali, la competitività deve essere declinata in stretto raccordo con la solidarietà. Occorre lavorare per fare crescere una nuova “cultura d’impresa riformista”, valorizzando anche la lezione dei migliori maestri italiani dell’economia

 

Presidente, nel suo ultimo libro “L’avvenire della memoria – Raccontare l’impresa per stimolare l’innovazione ”, pubblicato da Egea, la convinzione di fondo è che le imprese abbiano le carte in regola per far fronte alla necessità di rivedere le scelte economiche e culturali sul “progresso”. Quali sono questi punti di forza da raccontare?

La consapevolezza delle proprie radici industriali e di una storica cultura del servizio, con attenzione per la qualità e le esigenze delle persone. E una forte inclinazione all’innovazione nel senso più ampio del termine, guardando a prodotti, meccanismi di produzione, ricerca scientifica e tecnologica, materiali, linguaggi del marketing e dell’innovazione, relazioni industriali. In sintesi: un radicamento in territori ricchi di cultura e senso della bellezza. E uno sguardo sempre attento all’evoluzione dei mercati, interni e soprattutto internazionali. Vale la pena non dimenticare la lezione di Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici del Novecento: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. L’attualità di questa condizione è confermata dal nostro continuare a essere, nonostante tutto, il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. Un primato che ci aiuta ad affrontare positivamente le crisi.

Il capitalismo deve farsi più inclusivo. Come si fanno, però, a scardinare i pregiudizi ancora contro l’impresa che, a guardarla da dentro, è forse molto meglio di quel che appare?

È necessario continuare a insistere in una vera e propria battaglia culturale sui valori che guidano le imprese nel produrre valore economico: il lavoro ben fatto, la produzione di risorse che alimentano un benessere diffuso, il premio al merito che alimenta, proprio nelle imprese, un buon ascensore sociale. I valori del cambiamento positivo. E quelli della sostenibilità ambientale e sociale, rispetto ai quali le nostre aziende sono tra le migliori in Europa. Bisogna aprirsi al pubblico, agli studenti, agli abitanti delle comunità che stanno attorno alle imprese. E fare capire che le nostre industrie sono capitale sociale positivo, attori responsabili dell’innovazione.

Da sempre lei sostiene che la cultura sia il vero vantaggio competitivo del Paese e che fare impresa innovativa sia una grande e vincente scelta culturale. Chi va ancora convinto che sia questa la giusta direzione?

I decisori politici a tutti i livelli, in Europa, al governo e nel Parlamento italiano, nelle strutture del potere locale. Gli altri attori sociali, a cominciare dai sindacati. E i protagonisti della scuola, dell’università e delle attività culturali in generale. Insistendo sul fatto che “fare impresa significa fare cultura”, se cultura sono, naturalmente, la letteratura, le arti visive, il cinema e il teatro, la musica e la fotografia, ma anche la messa a punto d’una nuova tecnologia, un processo chimico, un contratto di lavoro ben costruito che trasforma le relazioni sociali, un bilancio chiaro e comprensibile, un nuovo prodotto che migliora la qualità della vita. Cultura immateriale e materiale. Lievito delle trasformazioni positive. Scelte, processi produttivi, innovazioni che meritano attenzione e racconto. 

La crisi che lei descrive come cominciata nel 2008 ha cambiato forma, invadendo e pervadendo anche i linguaggi che risentono della violenza, della superbia, dell’ingratitudine. Di che segno deve essere il cambiamento? Le imprese di quali nuovi linguaggi possono e devono farsi promotrici?

Un cambiamento dei paradigmi tradizionali di produzione e consumo, appunto nel segno della sostenibilità. E un’attenzione coerente per le esigenze delle persone. La cultura del mercato si deve legare con le esigenze di migliori equilibri sociali, la competitività deve essere declinata in stretto raccordo con la solidarietà. Occorre lavorare per un vero e proprio “capitalismo inclusivo”. E fare crescere una nuova “cultura d’impresa riformista”, valorizzando anche la lezione dei migliori maestri italiani dell’economia, da Antonio Genovesi (lungimirante illuminista napoletano, con la sua “economia civile” che ha ispirato Adam Smith e che oggi risuona anche nelle parole di Papa Francesco) a Federico Caffè, originale interprete del liberalismo con forti venature sociali di John Maynard Keynes. Caffè, il maestro di Mario Draghi, uomo del buon governo con una forte caratterizzazione da riformatore lungimirante ed europeista.

Occorre una rivoluzione anche in termini di metodo: secondo lei bisogna investire «non solo sugli eventi, ma soprattutto sulle strutture che innervano i processi culturali nel lungo periodo». Per raggiungere quali migliori risultati?

Rafforzare, fin dall’inizio dei processi di formazione, con una buona educazione civica, la coscienza di una responsabilità civile per costruire un futuro migliore, più equilibrato e responsabile. Investire su scuole, biblioteche, teatri, conservatori musicali, musei, centri di ricerca, impianti per lo sport attivo, luoghi in cui essere protagonisti di una cultura diffusa. Cultura, dunque, come partecipazione. E come democrazia. Anche le nostre imprese ne avranno straordinari vantaggi in termini di produttività e competitività.

Nel suo libro, c’è spazio per una colta riflessione sul potere, sul senso e il valore distorto che oggi si dà di questa parola, sostantivo e verbo al tempo stesso. Qual è la lezione della cultura del passato che andrebbe recuperata?

Il “classico” come equilibrio di lunga durata di forme, funzioni, relazioni. I musei e gli archivi d’impresa, riuniti in Museimpresa (l’associazione fondata più di vent’anni fa da Confindustria e Assolombarda, con 120 tra iscritti e sostenitori istituzionali), ne offrono esemplari testimonianze. E un migliore senso del tempo, fuori dalla frenesia rapace dell’accumulazione finanziaria e con una grande attenzione per gli equilibri tra lavoro, produzione, comunità e fiducia nel futuro.

Occorre “armonia” per gestire una nuova fabbrica. Oltre a questa potente parola, quali altre sono le parole necessarie per leggere e raccontare le imprese di oggi?

Innovazione. Partecipazione. Condivisione. Responsabilità. Concretezza nella ricerca della perfezione del lavoro quotidiano ben fatto. E ambizione nel progettare e realizzare processi di cambiamento.

La letteratura, non solo quella di impresa, cosa può?

Aiutare a costruire un “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale” in questa stagione del primato dell’economia della conoscenza e della crescente diffusione dell’Intelligenza Artificiale. E insistere su una “cultura politecnica” che sviluppi sempre nuove sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. Disegnando e raccontando una nuova dimensione del progresso.