Assenze tattiche: quando la furbizia non paga

massimo ambron

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 18678/2014 ha confermato il licenziamento del lavoratore per assenze ripetute, pur giustificate da certificati di malattia, rigettandone il ricorso e condannandolo anche alle spese

 La sentenza della Corte di Cassazione n.18678, depositata il 4 settembre ma già definita da alcuni “storica”, conferma le precedenti sentenze emesse in primo grado e in Corte di Appello, rigettando con chiare motivazioni il ricorso presentato dal lavoratore di una Società di Chieti.

 

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo era stato comminato in quanto il dipendente, sistematicamente, si assentava in alcuni giorni immediatamente precedenti o successivi alle festività, oppure quando aveva turni di notte e/o disagiati.

 

Le assenze erano comunicate in limine all’ultimo momento e, di conseguenza, ancora maggiori erano i danni che la sua azienda subiva dal punto di vista organizzativo e produttivo. Il malumore era diffuso tra i colleghi che, per coprirne la posizione, a volte erano costretti ad allungare il proprio turno di lavoro oltre l’orario normale.

 

Formalmente il lavoratore era giustificato da certificati medici della durata di pochi giorni, ma ripetuti nel tempo e sempre ricadenti in giornate disagiate per il lavoratore. Il comportamento del lavoratore privo di diligenza, correttezza e per alcuni versi fraudolento non era più tollerato dalla sua azienda che lo licenziava per giustificato motivo oggettivo, irrogato in ragione delle sistematiche assenze del lavoratore, a macchia di leopardo, costantemente agganciate ai giorni di riposo o al turno di notte, con conseguente mancanza di continuità e proficuità, da cui derivava una prestazione lavorativa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per la organizzazione aziendale.

 

Questo era il motivo del provvedimento risolutorio, e non il superamento del limite di tollerabilità dell’assenza per malattia – cosiddetto periodo di comporto – predeterminato per legge e per contratto che, nel caso di specie, non era stato superato.

 

La malattia quindi non viene in rilievo di per sé, ma in quanto le assenze da essa determinate, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento, creavano notevoli scompensi organizzativi. Il lavoratore adduceva tre motivi a discolpa, tutti giudicati non fondati e rigettati dalla Corte: 1) mancata chiarezza nella sentenza circa la causale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; 2) illegittimità del licenziamento per eccessiva morbilità; 3) mancanza di prova delle esigenze organizzative e produttive e dello scarso rendimento del lavoratore. I tre motivi trattati congiuntamente dalla Corte sono stati giudicati non fondati e rigettati con richiamo tra le altre a precedenti sentenze (tra le tante, Cass. n. 7474/2012 e n. 3876/2006).

 

Secondo la Corte nel caso di specie era comprovato attraverso la produzione di documenti e testimonianze il licenziamento per giustificato motivo oggettivo previsto dalla L. 604/1966, determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ovvero da ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa. Né compete al giudice, contrariamente a quanto richiesto dal ricorrente, sindacare la scelta dei criteri di gestione della impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione.

 

Quali riflessioni possiamo pertanto trarne?

Il dipendente deve tenere sempre presenti i principi di correttezza, diligenza e buona fede, impegnandosi con serietà e professionalità per i migliori risultati aziendali e rendere la produttività richiesta. L’azienda deve con trasparenza, evitando odiosi comportamenti discriminatori, avere capacità organizzativa e attenta gestione delle risorse, in modo da assumere decisioni anche con alea di rischio, come nel caso di specie.