Virginia Woolf, una vera, totale scrittrice

VIRGINIA WOOLF webUna donna riconosciuta, adorata da pubblico e critica e con uno sguardo talmente lungimirante da far sembrare il futuro già accaduto. Il suo “scavar caverne” nell’umano è uno stile. Il suo linguaggio radicale giammai dimentica la bellezza, la ricercatezza e il dialogo con il figurativo

Anche solo se avesse scritto “Una stanza tutta per sé”, Virginia Woolf sarebbe stata una magistrale scrittrice di passioni e sperimentazione del linguaggio. In questo saggio viene ricostruito il ruolo “marginale” della donna e rivendicato il diritto alla cultura per troppo tempo “luogo” di maschile esclusività.

 

Ed è proprio in questo saggio del 1929 che la Woolf inserisce la propria capacità di scrittrice eversiva, analitica, innovativa, passionale e lucida al contempo. In realtà il saggio è solo una “parte” di una assai prolifica produzione letteraria dell’autrice londinese. E questa prolificità è spiegata dalla Woolf stessa in quanto è soltanto nella scrittura che la salvezza è possibile. La scrittura come rituale, mantra, liberazione, nido, abbraccio, sorriso ad andare avanti. Infatti ella non scrive solo romanzi, saggi, articoli, recensioni ma anche un diario personale. Un diario che da un lato le serve per appuntare l’allegria e la malinconia del suo viver quotidiano (quella quotidianità che alle volte la tormentava e straziava) ma anche come perfetta “esercitazione” e pratica.

 

Da un suo appunto diaristico datato 20 aprile 1918 leggiamo: «Quel che più conta è la mia convinzione che l’abitudine di scrivere così, solo per il mio occhio, è un buon esercizio. Scioglie le giunture».

Virginia Woolf è dentro una letteratura che la porta a circumnavigare tutte le derive e approdi della scrittura. Dal realismo degli inizi (l’amore impossibile di “Melymbrosia” del 1915) alla scoperta del “flusso di coscienza” come totalizzante pratica letteraria con la quale realizza i suoi capolavori degli anni Venti: dai turbamenti interiori di “Mrs Dalloway” alla gita attesa per 10 anni di “Gita al faro” all’immaginifico viaggio nel tempo (e nelle sessualità) di “Orlando”. Poi gli anni Trenta sono quelli de “Le onde” dove l’emotività e l’interiorità sono un unico spazio di narrazione. E in tutto questo non dobbiamo dimenticare il suo impegno editoriale: con il marito Leonard fonda la Hogarth Press, innovativa e raffinatissima stamperia, e quello straordinario cenacolo culturale-politico-artistico del “Bloomsbury Group”.

Insomma una donna riconosciuta, adorata da pubblico e critica e con uno sguardo talmente lungimirante da far sembrare il futuro già accaduto. Il suo “scavar caverne” nell’umano è uno stile. Il suo linguaggio radicale giammai dimentica la bellezza, la ricercatezza e il dialogo con il figurativo. Insomma una vera, totale scrittrice. Eppure…Eppure l’ombra nera del mal di vivere è sempre in agguato. Quel mal di vivere che la fa guardare al suicidio come unica possibilità di “sopravvivenza”. E lo tenterà ben tre volte, fino all’ultimo che la spinge, con le tasche piene di pietre, a lasciarsi andare (il 28 marzo del 1941) nelle acque dello Ouse.

 

Prima di andarsene lascia una straziante lettera al suo Leonard. Una lettera “senza appello” e che nel suo frammento finale stralcio: «Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo qualcuno eri tu. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi».
Un’ultima scrittura che invoca felicità. Un sentimento che Virginia sa di non poter vivere.