Società di comodo: il coraggio di cambiare

Marco Fiorentino

Occorre una rivisitazione dell’intera disciplina, coordinandola con quella sulle comunicazioni dei beni ai soci, cancellando la logica da minimun tax generalizzata e focalizzando l’attenzione solo ed esclusivamente sulle società che posseggono beni sensibili

 

Nel corso del tempo le società “senza impresa” sono state oggetto di norme tese a combatterle.
Basti pensare alla famosa tassa sulle società dei primi anni ’80 che, per inciso, determinò un clamoroso contenzioso sfociato in una sentenza della Corte di Giustizia che ne intimò il rimborso, per contrasto alla libertà di iniziativa economica. 
Ma pensiamo anche all’art. 5 co 5 secondo cpv lett. a) DPR 633/72, che rende irrilevanti ai fini IVA talune attività di società a favore dei soci a prezzi non di mercato. In questo solco vanno anche le norme sulla comunicazione all’AGE dei beni utilizzati dai soci e dei finanziamenti da questi effettuati, di cui all’articolo 2, co 36 sexiesdecies e 36 septiesdecies del D.L. n.138 del 13 agosto 2011. Insomma, dal Legislatore si è sempre avuta grande attenzione al fenomeno della illecita “societarizzazione”, che si realizza allorquando una persona fisica posiziona specifici asset a destinazione personale (immobili – imbarcazioni – ecc.) in un contesto societario, allo scopo di usufruire di vantaggi fiscali, in ambito privato non ottenibili. Essi sono rappresentati in linea generale dalla deducibilità dei costi sostenuti per il godimento di tali beni e dal diritto a recuperare la connessa IVA assolta, senza dimenticare che con la delocalizzazione dei beni si ottiene anche uno svuotamento del patrimonio personale in ottica “redditometro” e nei rapporti patrimoniali verso terzi.
Anche la disciplina sulle società di comodo, introdotta dall’art. 30 della Legge n. 724 del 23 dicembre 1994 e ampliata dal comma 36 decies dell’articolo 2 del D.L. citato, aveva (ed ha) come obiettivo la penalizzazione della societarizzazione di beni privati e colpisce sostanzialmente due tipi di società: le “società non operative”, ossia quelle che non superano il test di operatività previsto dal comma 1 del citato articolo 30; e quelle “in perdita sistematica”, ossia quelle che presentano tre periodi d’imposta consecutivi in perdita fiscale.

Si ricorda che per la prima fattispecie, la struttura antielusiva di base prevede:
• l’applicazione di parametri di ricavo a specifici beni patrimoniali dei bilanci dell’esercizio di riferimento e dei due precedenti, al fine di identificare un ammontare minimo di ricavi da realizzare – che rappresenta la soglia di operatività – che va poi confrontato con i ricavi effettivamente realizzati per il medesimo periodo di riferimento;
• in caso di mancato superamento della soglia di operatività, l’applicazione di coefficienti di redditività, sempre sui suddetti asset relativi all’esercizio in oggetto, per determinare il reddito minimo al quale adeguarsi ai fini delle imposte dirette.

Tralasciando le modalità di calcolo dei ricavi medi, si ricorda che il reddito minimo si ottiene applicando le seguenti percentuali di redditività: 1,5% per i titoli e partecipazioni e assimilati; 4,75% per gli immobili; 4% per i fabbricati A/10 e 3% per gli immobili a destinazione abitativa; 12% per le altre immobilizzazioni.

Relativamente alla seconda fattispecie, sono soggette a penalizzazioni le società che presentano una perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi, ovvero, per lo stesso periodo di osservazione, hanno indifferentemente due perdite fiscali e un reddito imponibile inferiore a quello minimo presunto derivante dal test sull’operatività.
Venendo agli effetti, le società qualificate “di comodo” hanno l’obbligo di dichiarare un reddito minimo ai fini IRES e IRAP, subiscono la tassazione ai fini IRES al 38% anziché al 27.5% nonché il congelamento dell’eventuale credito IVA (ovvero la sua cancellazione decorso un triennio di non operatività e senza operazioni rilevanti ai fini IVA almeno di importo “minimo”).
Al fine di alleggerire la portata applicativa delle norme, sono stati emanati dall’AGE due distinti provvedimenti direttoriali: il n. 23681 del 14/2/2008 che ha introdotto specifici casi di esclusione dalla disciplina delle società non operative; il n. 87956 dell’11/6/2012 che ha previsto invece i casi di disapplicazione della normativa delle società in perdita sistematica. Infine, l’AGE ha previsto, per la non applicazione delle norme, un robusto ricorso alla procedura di interpello disapplicativo. Sotto questo profilo, si sottolinea come l’AGE abbia poi complicato le relative modalità di fruizione, prevedendo la natura preventiva dell’interpello, nonché la non autonoma impugnabilità dell’eventuale responso negativo, ma su questi temi la Giurisprudenza sta assumendo posizioni contrarie ed in senso favorevole al contribuente.

Qualunque operatore in campo fiscale, analizzando gli obiettivi che la normativa si propone di realizzare, certamente non avrebbe nulla da eccepire.

Chi si può mai opporre a norme che combattono l’evasione?
Il problema però sorge quando uno strumento tecnico applicato per colpire atteggiamenti negativi viene fatto degenerare in un nuovo sistema di controlli e di obbligazioni, con la moltiplicazione di adempimenti, finendo così col produrre effetti ben lontani dai nobili obiettivi.
Temo che sia questo il caso.
Infatti, per quanto concerne la disciplina sulla non operatività, non è accettabile che una norma pensata per colpire un gruppo di probabili evasori persone fisiche, che abusano dello strumento societario a fini propri, di fatto venga usata come grimaldello per sottoporre a reddito minimo – tassato al 38% – tutte le società che non rientrano nelle cause di esclusione e che, in linea di principio, possono anche non avere alcuna relazione con pratiche evasive.

É stato scritto che l’interpello preventivo tende proprio ad evitare tale straripamento di imposte, ma il ragionamento non regge. 
Prima di tutto perché così si sposta impropriamente l’onere della prova dall’AGE alle società. Nell’esperienza di tutti i giorni poi si è constatato che questo ruling non si limita a verificare l’esistenza o meno di una costruzione societaria elusiva o di un gruppo di persone fisiche che manipolano costi privati, ma, ben più efficacemente, indaga sulla sussistenza o meno di una gestione economicamente conveniente. In buona sostanza, vengono sindacate le decisioni imprenditoriali.
E si tenga presente che, con riferimento ad esempio alla redditività delle “Altre Immobilizzazioni”, si presume che essa sia almeno pari al 12%. Numeri lunari.

Emblematico è stato il caso di talune società del settore fotovoltaico che – nei periodi d’imposta (precedenti la riclassifica in bilancio dei pannelli solari tra gli immobili) nei quali non riuscivano a rispettare i minimi tabellari di redditività – sono state costrette a discutere con l’AGE e a documentare l’energia prodotta, quella venduta, i margini, ecc..

Mi domando, ma cosa c’entra tutto ciò con le società di comodo? Dove sono i disegni evasivi? Il risultato di tutto ciò sono decine di migliaia di istanze che pare irragionevole ritenere provengano tutte da soggetti eludenti e società costrette a dimostrare, spesso in giudizio, le ragioni del loro ciclo produttivo inferiore alla redditività ex lege. Altro limite è che la legge non ammette una soluzione alternativa dinanzi ad un ruling negativo, diversa da quelle di una mera ottemperanza. Non si capisce infatti, cosa possa mai fare una società con redditività insufficiente per evitare le tagliole della legge, se non difendersi in giudizio. Si porta il caso di una società di progetto in lite con gli enti appaltanti e nessun ricavo. Quale rimedio oltre quello di andare in contenzioso con l’AGE? Siamo quindi di fronte ad una degenerazione della norma e ad una riedizione, sotto mentite spoglie, della minimum tax con l’aggravante della sovraimposta. In merito alle società in perdita sistematica, si premette che, in linea di principio, non è sbagliato presumere l’esistenza di un rischio fiscale, tuttavia il rimedio scelto per la tutela da tale rischio appare del tutto sproporzionato. Infatti, per tali società, oltre a tutto l’armamentario previsto per le non operative (38% di IRES – onere della prova – interpello – sindacabilità dell’AGE – ecc.), si ha anche l’aggravante che la presunzione di società di comodo non si basa nemmeno su parametri economico–patrimoniali, bensì su un dato finale (utile – perdita) che può essere il risultato di mille variabili.
 

Non si fa alcun calcolo ma si guarda solo se c’è o meno una perdita fiscale per tre anni, ovvero un reddito inferiore a quello minimo. 
Così facendo però si rischia di cadere nell’equivoco che tutti quelli che sono in perdita continua evadono e quindi sono da penalizzare. 
La perdita reiterata è certo un indicatore (non l’unico) di evasione, ma rimane pur sempre un indizio e ovviamente non è una prova. 
Anzi, in trend negativi dell’economia o del mercato di appartenenza, questo elemento non appare nemmeno particolarmente qualificante. 
Per cui l’automatismo legislativo si presenta di dubbia costituzionalità.
Anche per tale disciplina il risultato applicativo sono migliaia di ruling e contenzioso a pioggia.

Per fortuna si sta formando una buona Giurisprudenza tributaria (si veda la sentenza n. 757/6/14 della C. T. Prov. di Cagliari), che sta consolidando il principio che una gestione in perdita non significa automaticamente una gestione in danno al fisco. Ma si tratta di una magra soddisfazione perché occorre sempre metter su un contenzioso, con quel che ne deriva.
Occorre pertanto una rivisitazione dell’intera disciplina, coordinandola con quella sulle comunicazioni dei beni ai soci, cancellando la logica da minimun tax generalizzata e focalizzando l’attenzione solo ed esclusivamente sulle società che posseggono beni sensibili (abitazioni, imbarcazioni, ecc.).
La Delega Fiscale (D.LGS. 23/14) potrebbe essere l’ambito giusto ma, purtroppo, la bozza di decreto sulla semplificazione fiscal, tratta della disciplina in oggetto solo con riferimento al periodo di osservazione per le società in perdita “sistematica”, che passerebbe da tre a cinque periodi d’imposta consecutivi.
Un po’ poco per disattivare una norma assurda. 
Un contributo nullo per le imprese, ma per cambiare ci vuole coraggio.