Rullani: «Il rischio è che l’Italia resti ai margini dell’economia globale»

Il fatto che tuttora la politica non abbia scelto di investire massicciamente nella ricerca, nella scuola e nell’università, predisponendo il capitale umano necessario, è una delle debolezze competitive fondamentali cui dovremmo trovare rimedio

Professor Rullani, nel corso della nostra Assemblea Pubblica, ha ascoltato direttamente dai protagonisti le ragioni per cui sarebbe necessario rimettere l’impresa al centro. Motivazioni anche diverse ma convergenti. Hanno ragione gli imprenditori a dire che questo governo e questa manovra sono anti-impresa?
Il punto essenziale è guardare alle criticità di un sistema economico dotato di indubbi punti di eccellenza, come le medie imprese di successo o la capacità di collegarsi ai mercati internazionali grazie all’export, ma oberato da problemi cronici che ne frenano le capacità propulsive. Mi riferisco alla stagnazione della produttività, alla caduta degli investimenti pubblici e privati, ad un indebitamento crescente, che aumentando l’incertezza sul futuro rende difficile il finanziamento corrente. Nelle scelte di politica economica questi problemi non stati messi al centro. Eppure agire dal lato della produttività vuol dire agire dal lato dell’impresa e del lavoro, della creazione di reddito, del rientro nel circuito produttivo di chi ora ne è stato espulso.
Questa manovra cerca di riattivare il sistema grazie alla semplice domanda addizionale indotta da un deficit di bilancio finanziato a debito, una strategia che ha il respiro molto corto rispetto a ciò che servirebbe.

Cosa c’è di buono, secondo lei, nella manovra del governo?
Il governo fonda la manovra sulla dichiarata volontà di farsi carico delle sacche di povertà ed emarginazione del paese, identificandole in un universo di cittadini ad oggi obiettivamente periferici rispetto al circuito della produzione di valore.
Non solo i poveri, i disoccupati, le aree a maggiore disoccupazione come il Sud, ma anche il ceto medio in declino, le fasce deboli del lavoro e dell’imprenditorialità, i territori che stanno perdendo l’identità ereditata dal passato. Questa attenzione non è nuova.
Anche i due governi precedenti avevano affrontato il tema, e da una prospettiva più universalista, includendo fasce di popolazione che ora si tende ad escludere, come i migranti. Ma è comunque un’attenzione lodevole. Il problema è che per intervenire in modo efficace su questi temi la logica della semplice redistribuzione del reddito disponibile non basta, men che meno se sostenuta “a debito”.
L’emarginazione si combatte attraverso il cosiddetto “empowerment”, vale a dire la costruzione di sistemi di supporto che permettano a chi è periferico al circuito della produzione del valore di creare un proprio percorso di rientro, di produzione di reddito e in definitiva di emancipazione. Dunque, l’attenzione a certi temi – la disuguaglianza, l’emarginazione, il disagio sociale – è ciò che c’è di buono, ma le soluzioni da mettere in cantiere sono altre, e piuttosto diverse da quelle su cui è stata concentrata l’attenzione finora.

Quanto pesa l’incertezza complessiva del momento sulle imprese?
Siamo giunti ad uno snodo importante dell’evoluzione delle nostre economie. L’avvento del digitale, che ancora non ha dispiegato tutta la sua capacità dirompente, e la crescente forza della globalizzazione, fatta di movimenti di merci, di capitali, di persone, di informazioni, di mercati, di significati e simboli, impone la necessità di un investimento corale da parte di tutto il sistema Italia. Le imprese sono quindi chiamate ad immaginare e realizzare importanti investimenti a rischio per innovare la propria posizione competitiva, le proprie competenze, la propria organizzazione. Questi investimenti possono essere realizzati solo se la transizione verso il nuovo assetto che si sta creando viene gestita. Se viene lasciata a se stessa, non governata, l’incertezza che ne deriva rende riluttanti i possibili finanziatori, rende più difficile creare reti e progetti comuni che, condividendoli, rendano i rischi più gestibili, e non permette la creazione di quell’infrastruttura materiale e immateriale che serve a dare una base solida agli investimenti. C’è dunque la concreta possibilità che questi non siano portati avanti, lasciando l’Italia ai margini di una economia globale in cui prevarranno coloro che invece avranno avuto la lungimiranza di creare le condizioni per accogliere -e governare – il nuovo paradigma.

Lei ha indicato la produttività come antidoto al declino non solo dell’impresa, ma del Paese. Come si spinge su questa leva e perché è così difficile intraprendere questa strada?
Oggi il concetto di produttività non può essere semplicemente legato a quello di volume della produzione, deve invece riferirsi al valore prodotto. Per accrescere il valore prodotto per unità di input non è sufficiente investire sull’innovazione dei processi, si deve agire sul valore che il prodotto ha per il consumatore, sulla qualità, l’esperienza del consumo, il suo significato. Ad esempio, i prodotti Made in Italy possono generare più valore per ogni ora lavorata e per ogni euro investito non tanto se costano meno, ma quando rendono di più in forza della loro qualità distintiva, dei significati simbolici ed estetici associati, del livello di flessibilità, di fiducia e di servizio garantito al cliente. La rivoluzione digitale e globale in corso offre grandi potenzialità da questo punto di vista, perché permette di agire proprio sulle leve della produttività, dalla qualità, alla customizzazione, alla creazione di significati ed esperienze. Per cogliere questa occasione, tuttavia, diventa fondamentale poter disporre di un sistema che permetta alle imprese di entrare a far parte di catene del valore ormai globali, grazie ad infrastrutture logistiche e comunicative adeguate, di avere accesso a capacità professionali all’avanguardia, integrate con l’uso dei programmi e degli automatismi digitali, e distribuite nei territori ed oltre i territori, in una logica di rete. La produttività nasce dunque, in questo contesto, dalla mobilitazione di capacità intellettuali, produttive, logistiche e comunicative che vanno predisposte per tempo: l’Italia è in ritardo in quasi tutti questi campi. Ad esempio, il fatto che tuttora la politica non abbia scelto di investire massicciamente nella ricerca, nella scuola e nell’università, predisponendo il capitale umano necessario, è una delle debolezze competitive fondamentali a cui dovremmo trovare rimedio.

L’inclusione dei giovani nel mondo del lavoro pare restare al momento un’altra priorità mancata. Quali sono le possibili soluzioni, oltre il reddito di cittadinanza?
Chi oggi ha meno di trent’anni è cresciuto in una società ed in una economia ormai fluide. È quindi nelle condizioni migliori per apprendere facilmente a gestire i codici digitali richiesti dalle nuove macchine, adottare culture e stili di vita transnazionali, utili per muoversi con successo nelle filiere e nei mercati globali, e contribuire quindi all’evoluzione della nostra economia così come discusso precedentemente. Ma per farlo, deve poter apprendere tutto questo. L’Italia ha oggi nella sua forza lavoro una percentuale di laureati tra le più basse d’Europa, mentre negli istituti tecnici e professionali non è ancora decollato un rapporto di interazione scuola-lavoro efficace. In mancanza di una attenzione adeguata alle relazioni tra scuola, università e imprese, tra creazione della conoscenza e creazione del valore, il potenziale che le giovani generazioni possono esprimere viene sprecato.
Un’attenzione che deve essere adeguata ai tempi, centrata sull’apprendimento dei linguaggi formali, certo, ma anche sulla crescente importanza della creatività e dell’intelligenza sociale, sul crescente valore che significati, esperienze e relazioni avranno per le nostre economie. Si deve quindi immaginare di potenziare gli investimenti in questi ambiti, che sono politicamente difficili da implementare dati i ritorni a lungo periodo, ma quantomai necessari e non più procrastinabili.

All’Assemblea era presente anche l’Ambasciatore tedesco in Italia. In poco più di un decennio i tedeschi hanno eliminato il dualismo Est/Ovest. In Italia, invece, la forbice Nord – Sud continua ad allargarsi…Perché non riusciamo a ridurre in modo significativo il divario?
La rivoluzione digitale e globale rende possibile ripensare il divario Nord/Sud secondo coordinate nuove.
Infatti, in questo contesto, la questione chiave è la medesima sia per il Sud che per il Centro-Nord: l’investimento in capitale umano, in creatività sociale e nelle infrastrutture della logistica veloce e della comunicazione digitale.
Da questo punto di vista, i differenziali che contano tra Sud e Centro-Nord vanno oltre alle preesistenze, e sono quelli degli investimenti a rischio da realizzare nella sperimentazione di progetti di innovazione avanzati, capaci di attivare traiettorie espansive promettenti. Il Sud ha un bisogno immediato di ottenere dalla politica economica un sostegno differenziale alla sperimentazione del nuovo, partendo dalle idee e dai progetti innovativi già in essere, al fine di propagarle e consolidarle nel corso del tempo, in sintonia con gli investimenti e le iniziative prese al Centro-Nord.
Come per gli altri punti sviluppati precedentemente, anche in questo caso il semplice reddito di cittadinanza non è la soluzione.
Non basta a colmare un gap strutturale di produttività, che deve essere invece corretto con un consistente flusso di investimenti rivolti al futuro possibile.
Un futuro su cui possano così scommettere le comunità locali, i lavoratori coinvolti, i giovani occupati e disoccupati, le famiglie di chi si è soltanto sentito ai margini di quanto è accaduto finora. Ovviamente il tutto a partire dalle idee, dalle risorse e dalle relazioni delle imprese che già adesso operano nei territori del Meridione italiano e che in esso hanno salde radici.