Africa 2020: cara Europa, serve un nuovo Accordo

Ely SzajkowiczNel suo Contributo alla Consultazione pubblica, Confindustria Assafrica & Mediterraneo ha con forza evidenziato come l’azione dell’Ue verso i Paesi ACP sia stata assai poco incisiva, proponendo che i Paesi di Caraibi e Pacifico vengano stralciati dall’Accordo di Cotonou, per diventare oggetto di una specifica e separata intesa che tenga conto delle loro peculiarità

Un silenzio assordante ha accompagnato in Italia la Consultazione pubblica sul futuro del partenariato tra l’Unione europea e i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) per il dopo 2020 -quando cioè scadrà l’Accordo di Cotonou– lanciata dalla Commissione Europea il 6 ottobre 2015 e terminata il 31 dicembre scorso.

Che “l’innamoramento” tra Italia e Unione europea sia in crisi, è argomento quasi quotidiano sulla stampa nazionale. Ma certo occorre riflettere sul fatto che se da un lato ci si interroga sulle soluzioni al problema dei flussi migratori dall’Africa subsahariana (e ai drammi umani, sociali, nonché ai problemi politici che comportano), poi si tralasci in modo così evidente la possibilità di interfacciarsi proprio con la cabina di regia che l’Unione europea (piaccia o no) rappresenta. E non è che sia andata meglio neanche negli altri paesi comunitari, in termini di risposta numerica. I dati sulla partecipazione alla Consultazione resi pubblici non sono opinabili, sono numeri e basta: le risposte alla Consultazione sono state 103, di cui 65 autorizzate alla pubblicazione.

Dall’Italia sono pervenuti alla Commissione solo due contributi e di questi solo Assafrica & Mediterraneo ne ha autorizzato la pubblicazione. «Un risultato certamente non all’altezza dell’importanza di un tema che coinvolge i futuri rapporti politici ed economici di 106 Stati (28 Ue+78 ACP), quasi il 55% degli Stati Membri dell’ONU», rileva Giovannangelo Montecchi PalazziPresidente del Comitato Scientifico di Assafrica, che ne ha predisposto il testo. Appare allora opportuno fare chiarezza su un tema complesso, eppure centrale per la macroregione Europa-Africa. L’Accordo di Cotonou, sottoscritto nel 2000 da Ue e Paesi ACP riguarda (ma ci verrebbe da dire “riguardava”) i rapporti tra l’Unione europea e 78 Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico ed è una pietra miliare nell’evoluzione delle relazioni tra queste due aree, indirizzandole verso l’affermazione del principio di reciprocità. Se le tappe previste dalla sua architettura avessero funzionato nei tempi e nei modi previsti, nel 2020 si sarebbe aperta la Zona di libero scambio Europa-Africa, la più grande del mondo. Una fase fondamentale, anche se intermedia, era costituita dagli EPA-Economic Partnership Agreements, una serie di accordi commerciali per lo sviluppo del libero scambio tra l’Ue e i gruppi regionali dei Paesi ACP. Per circa dieci anni i negoziati hanno avuto un andamento “stop & go” finché, a partire dal 2014, si è registrato qualche effettivo avanzamento. Ma nel frattempo la Storia è andata più veloce delle architetture comunitarie: da giugno 2015 in Africa si lavora all’Area Tripartita di Libero Scambio (TFTA), per la creazione della più grande area commerciale integrata del Continente africano che legherà 26 Paesi, dall’Egitto al Sudafrica, integrando le tre aree di libero scambio già esistenti (Comesa, Sadc e EAC). Un mercato di 625 milioni di persone e 900 miliardi di dollari di PIL. 

Sarebbe già bastata la comparazione tra la lentezza dei negoziati comunitari e la velocità della TFTA per suggerire alla Ue una riflessione sul suo approccio (evidentemente obsoleto) verso un Continente che, seppure a macchia di leopardo, in questi ultimi quindici anni sta registrando tassi di crescita elevati e in cui la classe media avanza, creando nuovi consumi e non necessariamente di basso livello.

 

E invece le 43 domande formulate dalla Commissione Europea, per la verità, sono parse assai generiche e forse questo ha contribuito allo scarso feedback ricevuto. Un risultato che non è in linea neanche con l’attuale evoluzione della Cooperazione allo Sviluppo internazionale (e di quella italiana “per attrazione”), sempre più orientata alla verifica dell’efficacia degli aiuti e al maggior coinvolgimento del settore privato per la creazione di progetti che abbiano impatto di sviluppo sui paesi destinatari e che soprattutto non sembra tener conto di quanto siano cambiati il tessuto industriale e il peso economico di molti paesi ACP, tuttora considerati in modo indistinto. Nel suo Contributo alla Consultazione pubblica, Confindustria Assafrica & Mediterraneo ha con forza evidenziato come l’azione dell’Ue verso i Paesi ACP sia stata assai poco incisiva, proponendo che i Paesi di Caraibi e Pacifico -portatori di interessi diversi e meno rilevanti per l’Ue rispetto a quelli dell’Africa vengano stralciati dall’Accordo di Cotonou, per diventare oggetto di uno specifico e separato Accordo che tenga conto delle loro peculiarità. Non basta: perché Confindustria Assafrica & Mediterraneo ha invitato l’Ue a concentrarsi con maggior forza su Africa, Mediterraneo e Medio Oriente, sottolineando il grande ruolo di agente di sviluppo endogeno che il settore privato può attivare nelle economie nazionali dei Paesi della macroregione. Un tema che appartiene al DNA di Confindustria Assafrica & Mediterraneo, che sin dai primi passi delle politiche di sviluppo dell’Ue (Trattato di LoméII del 1980) si è battuta -insieme alle consorelle europee- arrivando nel 2000, attraverso una serie di passaggi successivi e non facili, ad ottenere l’inserimento del ruolo del settore privato nell’Accordo di Cotonou. 

E per tornare all’inizio di questo ragionamento complesso per temi «Un risultato certamente non all’altezza dell’importanza di un tema che coinvolge i futuri rapporti politici ed economici di 106 Stati (28 Ue+78 ACP), quasi il 55% degli Stati Membri dell’ONU» e tempi, Confindustria Assafrica & Mediterraneo ha sottolineato come non siano stati inclusi nel corposo questionario di domande proposto dalla Commissione Ue sul post-Cotonou i due grandi temi che viceversa stanno quasi monopolizzando l’attenzione di politici e opinion leader europei, di grande impatto anche sul futuro degli Stati membri:
a) gli effetti in termini di flussi finanziari delle rimesse degli immigrati;
b) il tema, non solo umanitario ma, come si diceva, anche politico, dei grandi flussi migratori provenienti dall’Africa.

Nella precedente Consultazione sui temi della Cooperazione internazionale, uno dei nostri suggerimenti è stato recepito dal documento finale della Commissione. Questo vuol dire che se le idee sono buone, arrivano al destinatario.

Ma il dubbio che la Ue sia in ritardo su questi temi e -soprattutto- che l’Italia abbia perso un’altra occasione per ribadire le sue ragioni e le sue opinioni, resta.